Cultura

Club Dogo: c’è stile nell’autocelebrazione

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«È come prima, no si è montato. Ognuno sceglie la tua verità». In una frase lo raccontava bene il Ligabue di «Tra palco e realtà». La rabbia di chi si sente dire ch’è cambiato, che non è più l’artista vero e genuino degli inizi.

Nel caso dei Club Dogo, l’inizio di tutto e il disco d’esordio di «Mi fist». Il «pugno di Milano» uscì undici anni fa, quando il rap non era sulla cresta dell’onda come adesso, ma è diventato comunque un prodotto «cult». Il trio formato da Don Joe (dj, producer e addetto al programming) e dagli mc Jake La Furia e Gué Pequeno ha fatto un sacco di strada acquisendo credibilità pure nel mondo mainstream. Ricordate il successo di «Pes»? (a proposito, per... par condicio in questo lp si cita pure Fifa). I Dogo hanno scelto il «2k14» - anno in cui il potere discografico lo calcoli anche in like e visualizzazioni - per mandare nei negozi «Non siamo più quelli di Mi fist», settimo lavoro da studio, con testi rigorosamente da «parental advisory». Quello del sasso da levare dalla scarpa. In cui già nel titolo si desidera chiudere la bocca ai detrattori che li accusano, appunto, d’essere cambiati. D’essersi imborghesiti. Come quando il personaggio interpretato da Eminem in «8 Miles» vince la sfida freestyle decisiva denigrando sé stesso invece che l’avversario.

Quindi, a chi attacca, si comincia subito a dire «Sayonara», con la chitarra elettrica rock di Emanuele Spedicato dei Negramaro. Il secondo ordine è «Saluta i king», autocelebrazione ficcante con Don Joe che la mette in chiave elettronica. «Chiamami bomber, passami il Dompe» è la frase chiave del singolo «Weekend». Dove bomber - attraverso i social network - è passato da termine calcistico a parola che descrive una figura un po’ smargiassa, ma di successo (ed eccesso) in tutti i campi: danaro, donne, divertimento. Chi ci ha visto una banalizzazione dell’immaginario dei Club Dogo - in passato in grado di fare cose ben più originali - forse non sbaglia. Eppure c’è qualcosa di genuino e contagioso anche in questa rivisitazione di uno dei topos del mondo hip-hop: opulenza, donne, alcol di extra lusso. Ah, già, il Dompe è il Dom Pérignon. Rigorosamente da «sciabolare», non da stappare.

S’allarga il sorriso quando in «Sai zio» compare lo Zucchero di «Overdose (d’amore)». Chissà se Adelmo Fornaciari, nel 1989, si immaginava che «zio» sarebbe diventato un tormentone slang.

Opulenza celebrata, si diceva. Eppure «Soldi» ribalta la prospettiva. Perché la colata di monete fuse non può forgiare la chiave che apre il paradiso e il campione di Betty Curtis («Soldi, soldi, soldi») non suona scanzonato, bensì spettrale.

«Fragili» offre il contrasto tra la ruvidezza dei vocalist dei Dogo, una base tra Edm e Coldplay e la dolcezza della voce di Arisa. Il risultato, in estate, ha raggiunto con facilità il primo posto delle classifiche in Italia. Il Paese («a misura di scemo») che viene raccontato senza pietà in «Siamo nati qua», tra iPhone rubati, centri scommesse, mafia, soldi in nero e i problemi risolti dai cugini dei cugini.

Ricordate «Mary», il pezzo in cui i Gemelli Diversi raccontavano di una giovane abusata dal padre? «Lisa» è un’altra storia di degrado urbano, raccontata con la speranza di trovare una via d’uscita tra le lacrime. Mentre a colpi di autotune, in «Zarro», arriva un altro po’ di controffensiva verso i rapper che vorrebbero avere lo stesso numero di follower dei Club Dogo. Il cantante reggae statunitense Cris Cab dà un passaggio alla caraibica «Start It Over». La parentesi etnica dell’album prosegue in «Dicono di noi», tra festa sudamericana (nel ritmo) e adolescenza storta in provincia di Milano. Luogo in cui viene ambientata anche «Quando tornerò», con il featuring di Entics. Nel cuore della metropoli spunta anche la droga («Un’altra via non c’è»), un’amante che non ti vuole lasciare andar via. «Dieci anni fa» chiude il cerchio e al contempo riassume il senso di tutto: «Siamo il rap italiano, tu bacia le mani».

Daniele Ardenghi

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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