Claudio Uberti: «La femminilità negata durante l’Olocausto»

«Il cinema ha raccontato tanti aspetti della Shoah, ma il tema della femminilità negata durante l’Olocausto è rimasto poco esplorato». Violenza sulle donne che si somma alle persecuzioni razziali. È questa duplice prospettiva, di dramma nel dramma, che il regista franciacortino Claudio Uberti (già noto per «Rosso Mille Miglia») fa convergere nel suo nuovo lungometraggio «Bocche inutili», in uscita nelle sale come film-evento da dopodomani, lunedì 25 aprile, e prodotto da Wellsee e Lucere Film in collaborazione con Rai Cinema.
Firmano la sceneggiatura, con il cineasta, Francesca Nodari - «anima» dei Filosofi lungo l’Oglio - e Francesca Romana Massaro. La storia prende spunto da testimonianze di donne sopravvissute: la protagonista è Ester (Margot Sikabonyi, attrice che molti ricorderanno per la serie tv «Un medico in famiglia»), ebrea italiana di 40 anni rinchiusa dapprima nel campo di transito di Fossoli - allestito vicino a Carpi nel 1942 e oggi Museo-Monumento del Deportato - e poi trasferita a Ravensbrück.
Durante la prigionia deve nascondere la propria gravidanza, con il prezioso aiuto delle altre donne che vivono la sua stessa condizione, tutte vittime di privazioni, soprusi e angherie. Nel cast anche Lorenza Indovina, Nina Torresi e Patrizia Loreti. Il regista è in partenza per un tour di proiezioni lungo la Penisola. Nella nostra provincia il film sarà in anteprima dopodomani al Cinema Teatro Gloria di Montichiari (alle 15 e alle 21).
Da martedì 26 anche nelle multisala Wiz, in città, e Gemini di Capriolo. Uberti, nei titoli di coda di «Bocche inutili» spicca una minuziosa bibliografia. Ci parli del lavoro di documentazione... È stata un’intensa attività di ricerca, per condurre la quale si è rivelato determinante l’aiuto di Francesca Nodari, che ha coinvolto anche la storica Anna Foa.
Come è stato girare a Fossoli? E dove avete ricostruito le scene ambientate a Ravensbrück? Abbiamo tutti vissuto il set nel campo di transito con grande rispetto e partecipazione, sentimenti che si sono rivelati preziosi anche dal punto di vista artistico. Desideravo che le attrici vivessero la realtà del luogo. E anche Ravensbrück è stato ricreato a poca distanza, a Carpi.
La coralità del film e la gestione dello spazio scenico fanno pensare ad un dramma da camera... L’idea è stata mostrare l’interno della baracca come una scatola claustrofobica che sospende la normalità, dove tuttavia resistono parvenze di libertà e umanità e ci si stringe in una specie di famiglia. La finestra, in tal senso, rappresenta una membrana che divide dall’orrore dell’esterno.
Il suo percorso nel cinema è iniziato collaborando con Lina Wertmüller: qual è il suo lascito? Devo a lei la mia formazione, è stato un rapporto quasi filiale: mi ha insegnato umiltà, determinazione e soprattutto che il cinema deve essere un «mestiere» da coltivare con passione, non un semplice lavoro.
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