Cultura

Chiara Bazzoli: «In India per l’Italia c’eravamo solo io e "Ennio"»

La regista (e molto altro) bresciana ha girato il corto «Le cose ritrovate», tra i ruderi del Belice
Il pranzo di due innamorati tra i ruderi del Belice - © www.giornaledibrescia.it
Il pranzo di due innamorati tra i ruderi del Belice - © www.giornaledibrescia.it
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A fine agosto, al Festival Internazionale del Documentario e del Cortometraggio del Kerala, nell’India meridionale, in cartellone c’erano soltanto due film italiani, entrambi fuori concorso: «Ennio» di Giuseppe Tornatore (sul grande Morricone) e «Le cose ritrovate» della bresciana Chiara Bazzoli.

Una soddisfazione enorme per l’autrice, che è stata selezionata pure per il «Vision du Réel Film Market» di Nyon, faticando per contro a trovare spazio per il suo corto (36 minuti) nelle programmazioni del nostro Paese, nonostante che esso abbia un plot originale, una confezione di qualità e metta a fuoco un luogo, la valle del Belice, entrato tragicamente nelle cronache nazionali di fine anni Sessanta, salvo essere poi dimenticato dalla storia e dagli uomini.

Cinquant’anni compiuti da poco e portati con freschezza, Chiara Bazzoli è un’artista eclettica, che, dopo un periodo passato a fare soprattutto la mamma, ha nuovamente dispiegato le vele, senza più trascurare alcuno degli ambiti che rappresentano il suo mondo: il teatro (frequentato in passato perlopiù da interprete, ora da drammaturga e regista), la scrittura, il cinema. Per approfondire, l’abbiamo intervistata.

Chiara: dopo i corsi da videoperatore alla Civica Scuola di Cinema di Milano, in principio di anni Duemila, la sua attività dietro la macchina da presa era stata sporadica, mentre ora l’ha rimessa in moto con vigore. Come nasce «Le cose ritrovate»?

Il Belice - in cui vado periodicamente dal 2015 e dove posso contare su una fitta rete di relazioni - era la location prescelta per una storia che volevo assolutamente girare; perciò scrissi un progetto di documentario intitolato «I sognatori», poi finalista al Premio Solinas 2019. Nasce da un fatto storico: l’invio, a Natale 1975, di 700 letterine da parte di altrettanti bambini dei centri devastati dal terremoto del ’68 alle massime istituzioni dello Stato per sollecitare l’intervento di ricostruzione. Un’iniziativa promossa da un parroco e da un sindaco sovente in contrasto (un po’ come i personaggi guareschiani di Don Camillo e Peppone), che ebbe gran risalto, producendo i risultati sperati.

Ma «Le cose ritrovate» è un film diverso... In che senso?

Quel progetto, che partendo da un fatto storico era poi dedicato ad esplorare presente e futuro del Belice, è in stand-by per questioni legate alla produzione. Era tuttavia disponibile un finanziamento di SocialFilmFund per parlare del passato del Belice. L’ho preso e sono partita dalla domanda: cosa ci dicono oggi i ruderi dei vecchi paesi abbandonati dopo il terremoto, cosa realmente rimane di essi? Li ho considerati opere d’arte che nel tempo, come assecondando la volontà dell’artefice, si disfano fino a scomparire, e ho chiesto a coloro che vi sono affezionati di raccontarli: ognuno l’ha fatto a modo suo, con una fotografia, una poesia, una canzone, un aneddoto, addirittura un pranzo tra le macerie...

L’idea originale è stata accantonata?

Per nulla. Spero davvero che la vicenda delle letterine diventi un documentario... Intanto, confido in una vetrina bresciana per «Le cose ritrovate».

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