Cultura

Caparezza ti fa stare bene

Stasera al PalaGeorge il rapper con il nuovo lp «cura» interiore per un disturbo insopportabile
Una montagna di ricci. Caparezza, al secolo Michele Salvemini, tra i più grandi rapper italiani
Una montagna di ricci. Caparezza, al secolo Michele Salvemini, tra i più grandi rapper italiani
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«Canto di draghi, di saldi, di fughe più che di cliché». Un verso come quello nascosto dentro un brano del 2017 («Ti fa stare bene»), riassume perfettamente - concedendosi per sovrappiù il vezzo della citazione colta omerica e ariostea - la poetica di Michele Salvemini da Molfetta, in arte Caparezza.

Che poi è uno dei musicisti più singolari della scena italiana, refrattario alle mode culturali e all’incasellamento in una categoria, eppure in grado di coniugare senza tentennamenti hip-hop, canzone d’autore e rock, generi di norma poco propensi alla reciproca integrazione.

Il 44enne barese approda oggi al PalaGeorge di Montichiari, già sold out come ogni data del tour (in via Falcone 24 alle 21; per disponibilità dell’ultimo momento info su www.zedlive.com), con un live impostato su «Prisoner 709», ellepì del settembre scorso, già certificato disco di platino.

Si tratta di un vero e proprio concept-album, fondato sui numeri 7 e 9 (esattamente le lettere che compongono Michele e Salvemini), visti qui in chiave oppositiva, perché lo zero che li separa è in realtà una lettera, la «O».

Ma tutta la struttura dell’opera - composta da 16 brani, ovvero la somma di 7 e 9 - è concepita affinché ogni traccia possa mettere in campo coppie di opposti (libertà/prigionia, compact/streaming, aprirsi/chiudersi, guarire/ammalarsi, graffio/cicatrice, fuggire/ritornare...) nel rispetto dei numeri di cui sopra, e funzioni come base per una lunga autoanalisi tra parole e note.

Il tema di fondo è infatti il carcere mentale in cui Caparezza si sente confinato da quando è stato colpito da una patologia, l’acufene, che si traduce in un costante «fischio all’orecchio», disturbo già di per sé insopportabile, che in un musicista di professione diventa addirittura tragico. A partire dalla copertina, tutto in «Prisoner 709» allude allo shock provocato dall’acufene nella vita dell’artista e alla prigionia a cui esso l’ha indotto.

Caparezza trasforma tuttavia il problema in spunto creativo e ci regala, con la consueta inarrestabile ironia e la sfacciataggine irriverente che lo contraddistingue, un’opera intensa, dalla dimensione teatralmente rilevante, che nei live sprigiona il meglio di sé, sublimata dal solito lavoro di precisione sulla lingua, che è ricca, pregnante e profonda. Rispetto ai lavori precedenti come «?!» (2000), «Verità supposte» (2003), «Habemus Capa» 2006), «Le dimensioni del mio caos» (2008), «Il sogno eretico» (2011) o «Museica» (2014) - che pure troveranno spazio nel live - in «Prisoner 709» ci sono meno colori, perché al carcere (fisico o mentale che sia) meglio si addice il biancoenero. Ma la confezione è annunciata come pirotecnica, oltre che balsamica e catartica: perché anche il rap può essere una valida terapia.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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