Cultura

Botte e minacce per le vie di Brescia: quando il fascismo abolì il 1° Maggio

Cent’anni fa il Governo di Mussolini cancellò la festa del lavoro. La repressione in città e nelle fabbriche
Un gruppo di socialisti rovatesi. Il Primo maggio era celebrato anche con gite e momenti conviviali - © www.giornaledibrescia.it
Un gruppo di socialisti rovatesi. Il Primo maggio era celebrato anche con gite e momenti conviviali - © www.giornaledibrescia.it
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Nell’osteria Breda di Chiesanuova bastonate per il marmista Angelo Paderno, 25 anni, abitante in via Milano. Stesso trattamento per l’operaio Enzo Dilda, 23 anni, e per il collega Giacomo Miodoro, 20, ospiti dell’osteria S. Anna alla Mandolossa. In via Corsica, invece, botte al carrettiere Fausto Nestori. Per tutti medicazione all’Ospedale Civile e prognosi di dieci giorni. Non furono i soli, tuttavia, a subire nel Bresciano la violenza fascista il Primo maggio del 1923. Le squadre della Milizia nazionale, che inquadrava negli organi dello Stato le camicie nere, controllavano che in città e nei principali paesi della provincia fosse rispettato il decreto del Governo Mussolini, che dieci giorni prima aveva abolito la tradizionale festa del lavoro. Scelta politica, per il legame che la celebrazione aveva con il movimento operaio e contadino: i nemici rossi.

«Qualche operaio trovato a gironzolare nei pressi degli stabilimenti fu dai pattuglioni mandato a lavorare, qualcuno che voleva fare il recalcitrante prese qualche schiaffo, come a S. Bartolomeo e a S. Eustacchio», scrisse il quotidiano locale «La Sentinella», il 2 maggio, nel breve resoconto sulla giornata. Il 19 aprile Mussolini aveva istituito un’altra ricorrenza: il 21 aprile, Natale di Roma e Festa nazionale del lavoro. Nel Bresciano, quel martedì 1° maggio 1923, trascorse senza scontri di rilievo. Il fascismo, a modo suo, aveva già pacificato gli animi. La repressione aveva colpito duro nei mesi e nelle giornate precedenti. Aveva il controllo assoluto delle campagne; in città resistevano nuclei di resistenza operaia, ma più individuale che collettiva. 

Minacce

La soppressione della festa era stata accolta in modo negativo nell’ambiente operaio, ma la reazione si era limitata alla distribuzione in città di volantini, subito fatta cessare dalla Milizia. Il 28 aprile, «Il Popolo di Brescia», quotidiano del Pnf locale, aveva ammonito: «Il 1° maggio si deve lavorare: l’assenza significa sciopero per una ragione e uno scopo perfidamente politico. L’assenza dal lavoro significa ribellione, e come tale la considereremo e la cureremo». Quindi la minaccia: «I bolscevichi nostrani, ridotti a quattro gatti rabbiosi, sono pregati di prendere nota di questo invito, tenendo presente però che noi terremo responsabili i capoccia di quanto potrebbe succedere». I leader sindacali e di partito erano già stati perseguitati e intimiditi a dovere (vedi il ben documentato libro «Socialismo, pace e democrazia. Cento anni di Primo maggio bresciano», di Diego Angelo Bertozzi, Zambon editore).

Cent’anni fa l’unico caso clamoroso di astensione dal lavoro si registrò alla Radiatori di via Milano (poi Ideal Standard): su 310 operai, 120 rimasero a casa. Il 2 maggio il giornale fascista, oltre al caso Radiatori, registrò «qualche defezione a Odolo». Il Primo maggio, commentò, «è stato seppellito coi funerali più meschini che si possano fare: cioè l’indifferenza. Non canti sovversivi e di odio, non cortei di splendida ebbrezza antipatriottica, ma lavoro e disciplina». 

Bruciati

Dovunque, riferiva il giornale, erano stati bruciati i pacchi dei quotidiani socialisti «Avanti!» e «La Giustizia», ritirati dai treni in arrivo da Milano. I resoconti della giornata segnalavano anche una bandiera rossa sequestrata a Bovegno e tentativi di abbandono del lavoro repressi a Gardone Valtrompia e a Lumezzane. E pensare che soltanto un anno prima, il Primo maggio 1922, migliaia di socialisti avevano attraversato la città in corteo per inaugurare la Casa del popolo in via Marsala, alla presenza del direttore dell’Avanti!, Giacinto Menotti Serrati. In mezzo c’era stata la Marcia su Roma e la presa del potere da parte di Mussolini, sottolineata a Brescia dalle scorribande violente degli squadristi contro i movimenti socialista e cattolico.

Adesso astenersi dal lavoro significava rischiare la bastonatura e la schedatura come pericolosi sovversivi. Il 3 maggio «Il Popolo di Brescia» pubblicò questo diktat: «Tutti i datori sono tenuti a far pervenire al Comando della Milizia di Brescia, in piazza del Comune, entro domani alle 16, l’elenco di coloro che si sono assentati dal lavoro. Nome, cognome, indirizzo». Un avviso di ritorsione.

Molti lavoratori bresciani, tuttavia, non rinunciarono a celebrare a modo loro la ricorrenza del 1923, devolvendo il guadagno di metà giornata alla sottoscrizione per la stampa socialista. Soltanto dopo la fine della guerra si tornò a festeggiare il Primo maggio. Nel 1945 in maniera spontanea, vista la situazione generale. L’anno dopo organizzata. 

Caffaro, la fabbrica - © www.giornaledibrescia.it
Caffaro, la fabbrica - © www.giornaledibrescia.it

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