Cultura

Aventino, la rivoluzione a metà che spaventò Mussolini

Claudia Baldoli
Anche 4 bresciani, tra cui Giorgio Montini, padre del futuro Paolo VI, aderirono alla secessione parlamentare: la storia in mostra a Brescia
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"Vivi, presenti, pugnanti": la mostra
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A cento anni dalla morte di Giacomo Matteotti, il dipartimento di Studi storici Federico Chabod dell’Università degli Studi di Milano, l’Istituto nazionale Ferruccio Parri e la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia, insieme alla Fondazione Anna Kuliscioff e allo studio +Fortuna, hanno realizzato una mostra storica intitolata «Vivi, presenti, pugnanti. L’Aventino e l’antifascismo dopo Matteotti».

La mostra, esposta nella sala ex Cavallerizza in via Cairoli 9 da domani, 14 febbraio, al 16 marzo e visitabile gratuitamente, racconta la scelta dei deputati delle opposizioni di dar vita a una secessione parlamentare per sollevare la questione morale sul fascismo e sconfiggere Mussolini con le armi della democrazia. Una vicenda che prese vita la mattina del 13 giugno 1924, quando, tre giorni dopo il rapimento di Matteotti, si riunirono in un’aula di Montecitorio un centinaio di deputati antifascisti per costituire un comitato delle opposizioni, ribattezzato come «secessione dell’Aventino».

La ricerca del compromesso

La speranza della maggior parte di loro, dopo le violenze fasciste che si erano intensificate in tutto il paese, era evitare uno scontro armato con il fascismo e trovare una soluzione di compromesso per ripristinare il funzionamento della democrazia parlamentare. Due settimane dopo, l’anziano leader socialista Filippo Turati pronunciò un discorso carico di turbamento, rabbia, speranza: «Egli vive, Egli è qui presente, e pugnante»: in nome di Matteotti i deputati antifascisti presero dunque la concorde decisione di astenersi dalle sedute della Camera.

L'esposizione sull'Aventino nella sala ex Cavallerizza - Foto Filippo Papa
L'esposizione sull'Aventino nella sala ex Cavallerizza - Foto Filippo Papa

Nella mostra, la storia delle idee si intreccia a quella degli eventi drammatici che portarono all’Aventino e che seguirono il suo percorso fino alla sconfitta: le elezioni dell’aprile 1924; il periodo dall’assassinio di Matteotti al discorso di Mussolini del gennaio 1925; le misure contro la stampa e l’attivismo dei giornali clandestini; il nodo dell’alleanza fra popolari e socialisti; le posizioni assunte dalle élite economico-finanziarie e il ruolo della monarchia. I vari pannelli non danno per scontata la sconfitta dell’Aventino e il giudizio che ne consegue, ma cercano di indagare – prendendole sul serio – tutte le possibili alternative. La storia delle opposizioni è una storia plurale, inclusiva, attenta ai diversi punti di vista e al vissuto dei protagonisti.

Un secolo dopo

Perché, a un secolo di distanza, è ancora importante ricordare quella scelta? Troppo spesso l’Aventino è liquidato nei manuali di storia come un tentativo, nobile ma infruttuoso, di opporre un’ultima stanca opposizione a un fascismo già padrone degli eventi. Per qualche mese, tuttavia, i giornali antifascisti soffiarono sul fuoco dell’indignazione e il fascismo sembrò vacillare. Gli aventiniani agivano nel presente e intessevano reti per il futuro, dando vita a un laboratorio di democrazia che sarebbe proseguito negli anni dell’esilio. L’ultima parte della mostra è dedicata infatti all’opposizione all’estero e in particolare alla Concentrazione antifascista di Parigi, la cui attività si protrasse fino al 1934 come «secondo Aventino».

Scelta etica

Quella degli aventiniani fu una scelta di ispirazione etica che trasmise una preziosa eredità all’antifascismo ricostituito in esilio, durante la Resistenza e negli anni del secondo dopoguerra. La mostra «Vivi presenti pugnanti» nasce dalla ricerca degli storici Luigi Petrella (Mazzini Society) e di chi scrive, condotta per il volume «Aventino: Storia di un’opposizione al regime» (Carocci, 2024). Il progetto dell’allestimento è stato realizzato dallo studio di design +Fortuna di Paola Fortuna, e coniuga una narrazione storica attenta alle fonti con un linguaggio contemporaneo ed evocativo.

La mostra si sviluppa intorno a due installazioni, che traducono il linguaggio della storia in inquietudini e ferite emotive: attraverso una selva di immagini e parole, il visitatore è portato suo malgrado dentro il clima di violenza in cui maturò la dittatura fascista, e solo voltandosi può scorgere le immagini e le testimonianze di coloro che si opposero al regime. Dopo essersi inoltrati nella selva si incontra il «tavolo delle opposizioni», dove famiglie politiche diverse si unirono per lottare a difesa della democrazia. Quasi una quinta scenografica che, grazie alla ricostruzione storica sui pannelli, guida il visitatore a immaginarsi attore di un’epoca drammatica, che comunica al nostro presente il valore della democrazia e della libertà.

Aventiniani bresciani

Una parte della mostra è dedicata alla vicenda aventiniana di Brescia. Furono infatti quattro i parlamentari bresciani che aderirono alla secessione: Carlo Bresciani, Giovanni Maria Longinotti e Giorgio Montini (padre del futuro papa Paolo VI) per il partito popolare, e Domenico Viotto per il partito socialista. Tutti loro si trovarono ad assistere e a reagire alla violenza scatenata anche nella nostra provincia dalle squadre fasciste fin dal 1921.

In alto a sinistra Giorgio Montini, in senso orario: Carlo Bresciani, Giovanni M. Longinotti e Domenico Viotto
In alto a sinistra Giorgio Montini, in senso orario: Carlo Bresciani, Giovanni M. Longinotti e Domenico Viotto

Come nel resto d’Italia, nei paesi della Bassa bresciana il fascismo lanciò la propria offensiva contro le organizzazioni socialiste e popolari e le leghe contadine. Le camicie nere guidate da Augusto Turati iniziarono anche l’assalto, con la protezione della forza pubblica, dei comuni socialisti e popolari e nell’estate del 1922 i fascisti invasero la città, dopo aver devastato le sedi del giornale socialista Brescia Nuova e di quello cattolico Cittadino di Brescia.

Dei quattro aventiniani bresciani, i tre membri del partito popolare furono costretti a ritirarsi dalla vita politica e cercarono di mantenere vivi gli ideali di democrazia e libertà attraverso attività sociali e culturali legate alla diocesi e alle organizzazioni cattoliche locali, mentre il socialista Viotto, che cercò fino all’ultimo di riprendere i contatti con gli operai e i contadini, fu incarcerato, confinato e infine costretto a lasciare l’Italia.

Claudia Baldoli – Università degli Studi di Milano  

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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