Auguri, Bob Dylan! Gli 80 anni di chi ha cantato il cambiamento

Ehi, Bob! «How does it feel?», come ci si sente?, per dirla come in «Like A Rolling Stone», la tua hit sulla fine dell’innocenza e lo smarrimento del vivere. Gli 80 anni che compi il 24 maggio, sono una festa o un peso per te, il... Giovanni il Battista della popular culture; per la Voce - «di sabbia e colla» la definì David Bowie - di quella musica che ha (un po’, non abbastanza) cambiato il mondo?
«Non chiedetemi niente di nulla, potrei dirvi la verità» avvertivi già 1965 in «Outlaw Blues», eppure un anno fa, fregandotene della pandemia, hai pubblicato il trentanovesimo album in studio «Rough and Rowdy Ways» (maniere brusche e litigiose, guardacaso...) dove in «False Prophet» canti «non sono un falso profeta, non mi ricordo quando sono nato e ho scordato quando sono morto».
Auguri: il Re NON è morto, viva il Re! E tanto basta, fino alla tua prossima canzone. Perché neppure Robert Allen Zimmerman saprebbe definire chi è stato, è ancora e perché rappresenta così tanto, il suo alter ego in arte Bob Dylan. Che da 60 dei suoi 80 anni veicola nella forma-canzone idee che puntualmente analizzano via via «i tempi che cambiano» del mondo e ammoniscono dal far finta di non vederne le storture.

È un mare di note e concetti quello scaturito da chi con aulica riduttività fu definito il Menestrello di Duluth per l’essere «troubadour», cantastorie di melodia e senso. Colui che ha messo la parola al centro del cantare: non un cantautore, ma un Autore che Canta. Una distesa di note e concetti che ancora si agita e agita; e - come l’oceano senziente del fanta-romanzo «Solaris» di Stanislaw Lem - ha musicalmente creato «miracoli crudeli» che vorremmo non finissero mai: oltre 600 brani - i cui diritti ha da poco ceduto alla Universal per 300 milioni di dollari - in cui il mondo trova specchio ed eco, visione e critica, magnificenza e miseria, sprone ed elegia.
Dylan è stato (ed è) mille cose, meritandosi etichette evocative ma mai esaustive della sua complessità: Voce della generazione; Macchina da inni di protesta; Fustigatore della società; Politico-nonpolitico; Umanista&egocentrico... Disse bene Jack Nicholson nel 1991 introducendolo al Premio Grammy alla carriera: «Quest’uomo è una rivoluzione». E tale è stato fin dal fatidico 25 luglio 1965 in cui al Newport Folk Festival fece eutanasia del suo trionfante folk acustico elettrificandolo e beccandosi del «Giuda!».
Un ebreo che a 37 anni si è convertito al Cristianesimo ed esibendosi nel 1997 davanti a 300mila giovani al Congresso Eucaristico di Bologna, salutò - alzando lo Stetson dalla testa - quel Papa Wojtyla che l’aveva voluto lì con entusiasmo tale da poi tenere un’omelia su «Blowin’ in the Wind». Dylan è un unicum fin dall’album d’esordio in 5.000 copie per Cbs il 19 marzo 1962.
Il meno incasellabile tra i miti del rock già vent’anni fa spinse il dylanologo Alessandro Carrera a definirlo così nel saggio «La voce di Bob Dylan»: «Ha cessato da tempo di essere un semplice artista. Ormai è una geografia, un universo semiologico, un’intera cultura concentrata in un singolo performer». Perciò, come nel recente omonimo brano, Dylan può dire, citando Walt Whitman, «I contain moltitudes», contengo moltitudini. E come nel mirabile collage di specchi infranti d’identità dylaniana che è il film «I’m Not There» di Tod Haynes, se ne hanno più raffigurazioni.
Dylan canta poesie scrivendo canzoni; glielo riconosce la motivazione del Nobel 2016 per la letteratura: «Per aver creato nuove espressioni poetiche nell’ambito della grande tradizione della canzone americana». Anche se lui nel ringraziamento precisò: «Le canzoni sono vive in una terra di vivi. Non sono letteratura e nascono per essere cantate, non lette». Per questo, poiché - come disse - «una poesia è una persona nuda», ha scelto di vestire le sue rime con l’immediatezza eternabile della musica anziché con la più labile pagina; ma scorbuticamente affermando «Non mi aspetto d’essere veramente capito, se non forse fra cent’anni».
Per ora noi, davanti al totem ottuagenario, come nel finale de «Il grande Gatsby» di Fitzgerald «continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato». Consci che Bob Dylan, se vorrà, saprà farsi sempre attuale presenza: «Forever Young», da vero mito.
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