Una fotografia, mille visioni: Fontana abbacinerà Brescia sino al 25 agosto

Fatevi abbacinare, a costo di rischiare una variante da policromatismo della Sindrome di Stendhal, poi guardate più lucidamente la giostra di tinte&creatività di Franco Fontana, maestro nel fotografare a colori e valorizzarne l’estetica: c’è più tempo per farlo. Sarà il 25 agosto e non più ieri, come inizialmente fissato, la chiusura di «Colore», la mostra-clou del Brescia Photo Festival, sull’opera del maestro modenese che ha fatto dei colori – per dirla con De André – la sua «direzione ostinata e contraria», sfidando qualche prevenuto birignao del biancoenero d’emozione.
Portata antologica
Lo meritano sia la portata espositiva antologica (122 stampe al Museo di Santa Giulia, con catalogo di Skira Editore), sia lo spessore e la fama dell’autore che, seppur sulla soglia dei 91 anni (il 9 dicembre), col suo sorriso simpaticamente sghembo ammicca in volutamente paradossale ritrattino in biancoenero (!) anche dal profilo Instagram dove ricorda che «lo scopo dell’arte è rendere visibile l’invisibile».

E l’arte del grande fotografo è quanto di più spettacolarmente si possa chiedere a delle foto che spaziano tematicamente ovunque: dai paesaggi – ma, badate, intesi «à la Fontana» - a multiformi variopinte creazioni in cui t’ammalia la multiforme capacità d’inquadratura di colui che nel 1961 esordì alla Biennale del Colore, a Vienna, e per tutta la vita avrebbe poi ricordato che «il mondo è a colori e tale va fotografato». Senza però banalizzarlo a piatta raffigurazione, peggio a cartolina, come certi suoi contestatori cercarono d’ingabbiarne la crescente notorietà e stima di fotografo controcorrente.
Tavolozza di madre natura
Fontana è convinto sostenitore dell’assecondare, esaltandola, la tavolozza di Madre Natura, e il suo occhio, spinto dall’immaginario, ha sempre scoperto ovunque, anche nel più banale dei campi coltivati o nel più piatto dei mari, il senso di un’inquadratura originale e di una fantasmagoria di luce e colori.
«Io fotografo da sempre dando un senso al colore, non lo uso per bellezza, né è semplice farlo – ci ha detto al telefono mesi fa, prima di presenziare all’inaugurazione della settima edizione del BsPhotoFest -: occorre vedere al di là del visibile. Non bisogna fotografare ciò che c’è, bensì svelare il non ovvio, mettere l’astratto nel reale. Ma non metterò mai un ombrellino rosso su un prato verde».
«Non luoghi»
Così nei decenni il suo obiettivo - e la mostra in Santa Giulia ne dà variegatissima riprova - s’è puntato su vedute apparentemente minimali dentro cui lui però vedeva e poi svelava inattese geometrie, ombre, contrasti. Vedute che diventano nel suo mirino dei «non luoghi» in un’operazione che più che a eternare contenuti ha sempre mirato a evidenziare «nuove» forme originali.
Ogni cosa, campi, autostrade, mari, edifici, persino asfalti, tutto nella sua opera sostanzia qualcosa di nettamente diverso da ciò che appare al primo sguardo: per esempio la multicolore «Baia delle Zagare, 1970» (vezzosamente minimalista, Fontana s’è sempre limitato a titolare con luogo e data i suoi scatti...) potrebbe essere il fantascientifico oceano senziente materializzatore di ricordi di «Solaris» di Stanislaw Lem. O il blu cangiante e immobile in astrattissima linearità di «Comacchio, 1976», rivelarsi un dipinto astratto. Così come gli scorci di edifici di altri scatti venire scambiati per scombinate costruzioni Lego o esercizi di geometria solida. Anche perché, in genere, Fontana s’è tenuto lontano dal ritrarre esseri umani: giusto le bellezze senza volto in piscina; o i quasi metafisici scorci di strade&genti del portfolio «Sorpresi nella luce americana».
Al maestro Franco sono bastati idee e sguardo per ricavare dall’apparente Nulla per chi altri guardasse, mirabili composizioni colorate. Una... Isola Che Non C’è d’un Peter Pan dell’obiettivo che estrae l’inedito dallo scontato.
Fatevi abbacinare, sarà come partecipare a un... flash-mob del disvelare fontaniano, una fotografia che alimenta mille visioni personali in chi guarda.
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