Marco Fratti: «Un onore restaurare l’organo Antegnati di San Giuseppe»
Un sogno che si realizza dopo essere stato accarezzato per trent’anni. Il restauratore di organi Marco Fratti non nasconde la sua soddisfazione per aver ricevuto il prestigioso incarico di recuperare secondo le tecniche più avanzate lo storico Antegnati della chiesa bresciana di San Giuseppe.
Considerato uno dei massimi capolavori dell’arte organaria italiana, lo strumento costruito nel 1581 da Graziadio e Costanzo Antegnati sarà presto al centro di complessi interventi che riguarderanno anche la cassa lignea, le cantorie e il locale dei mantici, come dichiarato nella conferenza stampa di presentazione dell’intervento, che si è tenuta ieri in Loggia.
Il progetto complessivo è sostenuto dalla Parrocchia dei Santi Faustino e Giovita, dalla Soprintendenza Belle Arti di Brescia e Bergamo, dal Ministero della Cultura e dal Comune di Brescia. Oltre al recupero conservativo sono previste iniziative di valorizzazione musicale con incontri e visite; il 12 dicembre l’Ateneo di Brescia ospiterà una presentazione dettagliata del progetto. Abbiamo intervistato il restauratore, docente all’Università di Pavia.
Marco Fratti, quando ha incontrato l’Antegnati di San Giuseppe?
Il mio rapporto con gli Antegnati inizia nel 1991, quando fui chiamato a recuperare l’organo della chiesa di Madonna di Campagna a Ponte in Valtellina. Qualche anno dopo ricevetti un analogo incarico per l’Antegnati (del 1588) della chiesa di San Nicola ad Almenno San Salvatore, in provincia di Bergamo. In quell’occasione, con i membri del comitato per il restauro, presieduto dal compianto Luigi Ferdinando Tagliavini, compimmo sopralluoghi sui superstiti organi Antegnati. Tappa illuminante fu la chiesa bresciana di San Giuseppe: ritrovai molte caratteristiche costruttive identiche a quelle dell’organo di Almenno, in particolare nel somiere e nelle canne metalliche interne.
Che cosa la colpì nello strumento di Brescia?
È un organo monumentale, avvolto da un’aura quasi sacra, come se custodisse la memoria dei suoi artefici, Graziadio e Costanzo Antegnati, che chiesero di essere sepolti in quella chiesa assieme ad altri musicisti. Da allora, come un tarlo, l’idea di poterlo restaurare con le più aggiornate metodologie mi si fissò nella mente.

E poi, cosa accadde?
Passarono più di quindici anni prima che quel sogno cominciasse a prendere forma. Nell’ormai lontano 2011 don Tullio Stefani e Giuseppe Spataro mi chiesero di esaminare lo strumento e di presentare un progetto di restauro da sottoporre a un comitato presieduto da Tagliavini che, tra il 1954 e il 1956, aveva seguito da vicino il precedente restauro condotto da Armando Maccarinelli. Durante il sopralluogo, in una gelida giornata di dicembre, ricordo ancora con emozione la scoperta dell’antico locale dei mantici, dimenticato da oltre un secolo.
Quali sono i problemi più urgenti dello strumento?
Sono problemi ormai cronici. Già nel ‘96 preoccupanti fenomeni di degrado delle canne metalliche erano ben visibili a causa del cosiddetto cancro dello stagno. Anche le varie componenti lignee della meccanica mostrano attacchi da parte degli insetti. Non ultime vanno ricordate le numerose modifiche, alcune davvero improprie, che l’organo ha subito nel tempo per adattarne il timbro ai gusti delle varie epoche successive.
Siamo ancora in tempo per intervenire?
Certamente. Malgrado le preoccupanti condizioni di conservazione, è ancora possibile percepire la nobiltà di una voce solo in parte offuscata dagli interventi invasivi del primo Novecento. Dunque, con questo intervento, si mira a restituire all’organo, oltre al restauro della materia, la sua fisionomia originaria, già delineata con chiarezza dagli Antegnati nel 1581.
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