Joel Meyerowitz: «Fotografare le macerie a Ground Zero mi ha cambiato»

Cappotto nero, jeans a sigaretta neri, stivaletti a punta neri. Ma attorno a lui esplode il colore delle insegne di New York, il rosso dei capelli vaporosi delle modelle redhead, il giallo dorato del tramonto sull’aeroporto di Los Angeles. Joel Meyerowitz che visita la sua mostra antologica allestita al Museo di Santa Giulia (visitabile da oggi e fino al 24 agosto nell’ambito del Brescia Photo Festival 2025): egli stesso è un’opera d’arte.
Il rivoluzionario maestro della street photography – che non ha fatto solo street photography, come mostra bene l’esposizione – è in questi giorni in città. «Sono molto grato: questo luogo è magnifico, l’avevo visto solo in foto, ma le foto non gli rendono giustizia», ci svela seduto su una delle poltrone lungo il percorso museale. «Eccola, la foto che più di tutte rappresenta la mia arte», dice poi indicando uno scatto del 1978 ambientato tra la 46esima e Broadway, zeppo di gente e situazioni.
Il motivo è presto detto: «Per arrivare a quest’immagine totale in cui non c’è un soggetto centrale ho dovuto abbandonare quello che chiamo “l’incidente”, come mi era capitato con altri scatti. Da quel momento ho voluto andare oltre la narrazione, raccontando con foto che vanno oltre il singolo momento per arrivare a usare il grande formato».
L’antologica, che presenta 90 fotografie, mostra dunque l’intero percorso del fotografo, arrivando anche a un progetto sviluppato durante il lockdown e comprendendo anche alcuni degli scatti più significativi della sua carriera: quelli delle macerie del World Trade Center.
Questa è la sua prima retrospettiva in Italia: non c’è mai stata occasione oppure ha atteso per qualche motivo?
In realtà il motivo è arrivato recentemente in maniera molto naturale, perché si tratta di una mostra che dedico a Giovanni Chiaramonte (filosofo e reporter scomparso nel 2023, ndr). È un motivo molto genuino: l’umanesimo della mia fotografia era qualcosa che anche lui sentiva e per cui mi rispettava. L’opportunità si è presentata da sola. Mi piace che l’antologica sia un viaggio dal presente al passato, come una biografia al contrario. Mostra alla gente dove sei arrivato e il percorso che ti ha portato lì.
Lei ha lavorato a cavallo di due secoli ricchi di enormi cambiamenti, sia sociali che tecnologici. Si è mai sentito spaesato?
No, disorientato mai. La fotografia è un’arte fondata sulla scienza. La sua invenzione ha cambiato il mondo. I cambiamenti tecnologici quindi sembrano sempre qualcosa di molto naturale. Anche per questo ho sempre cercato di stare un passo avanti. Prima con il colore, quando la foto a colori era relegata a «commerciale» e «ordinaria», e poi con il digitale. Già negli anni ’70 sperimentavo con le scansioni. Nel 1999 avevo già una fotocamera digitale. Mi sono sempre sentito a mio agio. La cosa che mi lascia spaesato è piuttosto il cambiamento nella natura umana. Evolve con la società. Seguire questa evoluzione mi ha permesso di capire quali siano i valori a cui le persone tengono.

Oggi qual è il valore più importante per la gente?
La connessione umana e l’intimità. Con internet, le email e gli sms abbiamo perso l’umanità delle relazioni. Quando vediamo un cuoricino pensiamo che le persone che l’hanno messo davvero ci stiano apprezzando, ma non è un’interazione reale. Si tratta di una consuetudine che sta penetrando nella società e che ci sta separando. A me manca l’intimità vera, ecco perché cerco di immortalarla. Spero di ritrarla, prima di morire.
Uno dei suoi lavori più noti è il lungo reportage da Ground Zero. Cosa significa per lei?
Sono newyorkese di nascita. Vedendo la mia città attaccata e ferita in quel modo volevo aiutare, ma nessuno poteva fare nulla. Immediatamente polizia, vigili del fuoco e muratori entrarono nel sito per prendersi cura delle ferite, come tante piccole api operaie. Un giorno ho sentito che il sindaco Rudy Giuliani vietava a chiunque di entrare per fotografare, essendo una scena del crimine. Ebbi un’illuminazione. “No: non puoi vietarci di descrivere questo momento storico. Ecco come posso aiutare”. Sono riuscito ad aggirare la sua ordinanza e a entrare. Ci ho trascorso un anno, scattando 8500 fotografie, registrando tutto ciò che accadeva. Fu trasformativo. Sono diventato una persona diversa. Ora quando lavoro cerco sempre di metterci un risvolto sociale, di non farlo solo per me.

C’è mai stata una fotografia che ha scelto di non scattare, mettendo via la macchina fotografica?
Anche in questo caso Ground Zero. Sono diverse le scene che ho scelto di non fotografare. Per esempio, i resti umani. C’erano pezzi di corpi dappertutto. Non mi serviva fotografarli: il senso del mio essere lì era rimettere insieme i pezzi e le macerie e riportarli in vita. Per i resti umani c’erano i fotografi forensi. Di corpi ci sarà un’intera collezione a scopo di documentazione. In quel momento io dovevo solo essere rispettoso, distogliendo lo sguardo.
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