Giuseppe Bergomi: «Volevo fare il pittore: dai grandi maestri il senso di materia, luce e spazio»

Da giovedì, la città renderà omaggio allo scultore Giuseppe Bergomi (Brescia, 1953) con una mostra diffusa dedicata alla sua carriera. Abbiamo incontrato l’artista, impegnato nell’allestimento.
Maestro, recentemente ha affermato che l’arte ha bisogno più di frequentazione quotidiana e di intimità che di grandi eventi. Crede che una grande mostra come questa, organizzata nella sua città, oltre che un doveroso tributo alla sua attività, possa favorire l’avvicinamento all’esperienza estetica anche per chi si muove solo per le grandi occasioni?
Certamente, accanto al piacere di vedere la città che riconosce il mio ruolo e documenta nella sua interezza la mia attività, ho trovato molto stimolante il fatto che i miei lavori vengano esposti in due sedi così diverse.
A Santa Giulia saranno visti dai visitatori già abituati a frequentare gli spazi museali e al tempo stesso saranno pretesto per una visita anche per chi, per mille ragioni, non è solito farlo. Mentre in Castello la mostra sarà aperta a tutti e quindi fruibile da un pubblico decisamente più ampio ed eterogeneo.
La sua carriera artistica, come documenta il dipinto «Lione, 1958» che apre il percorso, è iniziata come pittore prima di passare alla scultura, poi diventata il suo linguaggio d’elezione. In che modo questa transizione ha influenzato il suo lavoro?
Io ho sempre desiderato fare il pittore, e ho iniziato come iperrealista, partendo dalla fotografia. Non a caso l’opera di apertura (un dipinto del 1978 che riprende uno scatto che ritraeva mio padre, mia nonna e me bambino) è stato uno dei pezzi più significativi della mia prima mostra di pittura alla Galleria dell’Incisione, che esprimeva la conquista di un mondo molto legato all’autobiografia e alla scoperta dell’iperrealismo e del fotorealismo europeo. Ho dovuto però presto scontrarmi col fatto che la mia pittura non riusciva ad esprimere tutto ciò che la fotografia aveva in sé: una continuità di forma e di linguaggio che per quanto mi sforzassi, non riuscivo ad evocare sulla tela. Dopo l’illuminante mostra «Les realismes 1919-1939» visitata al Beaubourg, la scultura è arrivata a togliermi da quell’impasse: quel mondo estetico aveva trovato casualmente una nuova matrice, che piano piano è divenuta prevalente.
In mostra osserviamo come all’inizio si fosse dedicato alle terrecotte policrome, poi per un certo periodo il colore è scomparso e ha iniziato anche la produzione in bronzo.
Tutto ha inizio con l’argilla, anche la scultura in bronzo e pure quella in marmo partono da lì. Le mie prime terrecotte policrome erano di fatto un modo per continuare a dipingere. Ripeto: io non volevo fare lo scultore, volevo essere un pittore, ma libero dal condizionamento ottico della fotografia. Poi nella scultura ci ho trovato molto gusto, e sono andato avanti su questa strada che non ho più lasciato. A un certo punto sono aumentate le dimensioni, sono nate le prime opere al vero e anche più grandi del vero, e tolto il colore è divenuta prevalente la materia. Quanto al passaggio al bronzo è stato dettato dalla necessità tecnica di realizzare figure in piedi che potessero sostenersi autonomamente.

Il rapporto tra figura umana e geometria solida è un tema ricorrente, in particolare nelle opere esposte a Santa Giulia, come la «Grande ellisse», in dialogo con le architetture del monastero.
A cominciare dal primo monumento realizzato per l’acquario di Nigoya in Giappone, mi si è posta la necessità di elaborare un modo per inserire la figura all’esterno, condizionando lo spazio attraverso l’inserimento di elementi geometrici che fossero in rapporto con la figura umana in una dimensione di intimità, anche se all’aperto e in relazione a grandi spazi.
Nel suo lavoro prevalgono sempre il tema autobiografico (con sua moglie Alma e le sue figlie come modelle predilette) e quello ideale, che spinge la raffigurazione su un piano più simbolico. Quali sono i riferimenti che l’hanno maggiormente condizionata?
I miei riferimenti sono tantissimi, da Piero della Francesca ad Arturo Martini. Chi mi ha spinto alla scultura è stato il cecoslovacco Otto Gutfreund. Ma più in generale la mia cultura è tutta europea, si è formata con il positivismo francese, con gli Impressionisti, con Courbet, Poussin, Ingres, Vermeer, Degas, tutti artisti diversissimi, ma caratterizzati da una fortissima sensorialità materica, della luce e dello spazio.
Ci sono opere a cui è particolarmente legato?
Lavori come «Alma sul tavolo da cucina» o «Valentina su sedia da regista», nati nel momento in cui intorno agli anni Duemila ho sentito di avere conquistato una vera autonomia espressiva. E sicuramente l’opera inedita «Colazione a letto», che chiude idealmente il percorso con un nuovo ritratto di famiglia, questa volta scultoreo, con tre generazioni a colloquio, ma in cui io, il bambino del primo dipinto, ora sono il nonno.
Qual è il messaggio che auspica questa mostra consegni ai visitatori?
Che l’arte ha a che fare con l’esperienza individuale e non è mai slegata dalla vita; è testimonianza della gioia di stare al mondo, attraverso la rappresentazione della bellezza di cose minime e allo stesso tempo grandissime. È in primo luogo un modo per celebrare la vita, e in qualche senso combattere la morte.
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