Cultura

Arena tra palco e golfo mistico: il racconto dei bresciani

Il soprano Barbara Bettari e i trombonisti Roberti e Gatti raccontano sortilegi dell'anfiteatro di Verona
Il trombonista Giancarlo Roberti (primo a destra) sul palco dell’Arena di Verona - © www.giornaledibrescia.it
Il trombonista Giancarlo Roberti (primo a destra) sul palco dell’Arena di Verona - © www.giornaledibrescia.it
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La mia Arena. Ti stordiscono come un frinire estivo di cicale i ricordi e le esperienze dei musicisti bresciani attivi nel leggendario anfiteatro veronese. «Canto nel coro dell’Arena da 23 anni, ma quella marea di 14.000 spettatori mi mozza ogni volta il fiato - racconta Barbara Bettari, soprano di Carpenedolo - . Migliaia di occhi addosso. Stanno guardando proprio me! Registi sempre più esigenti: devi essere attrice, mannequin, ballerina, cantante. Potenza, prontezza, disinvoltura, espressività. Costumi ingombranti come cappe; parrucche, trucchi, monili, oggetti vari. Sono kolossal, più che allestimenti. Anno dopo anno i gradoni dell’Arena sembrano alzarsi di due centimetri (si surriscaldano pure?). Le prove assomigliano a "corsi di sopravvivenza" per superare indenni le recite: il coro dista 30/50 metri dal direttore, deve anticiparne il gesto, aguzzare le orecchie, non perdere mai di vista la scena. L’acustica dell’Arena è ostica e penalizzante: quell’enorme spazio necessita di una vocalità corposa e piena di energia, per proiettare il suono fino all’ultimo anello, lassù in cima. Tuttavia il sortilegio di un "pianissimo" in Arena è senza paragoni... il coro a bocca chiusa di Butterfly, che sale nel chiarore lunare...».

In primo piano. Il trombonista Diego Gatti - © www.giornaledibrescia.it
In primo piano. Il trombonista Diego Gatti - © www.giornaledibrescia.it

Analoghi incanti per Diego Gatti, trombonista di Fiesse, a lungo con la «Karajan Akademie» dei Berliner Philharmoniker, in Arena dagli anni ’90: «A un certo punto il trambusto di migliaia di persone si azzera. Cresce un silenzio carico di attesa che regolarmente mi commuove. Il garrito delle rondini in cielo. Una bacchetta fende l’aria e il mistero della musica rinasce. Non mi tolgo dalla mente lo squillo torrenziale di Carlo Bergonzi e di altre mitiche voci, fasci enormi di luce. Mi ha colpito la maturità di Daniel Harding, ma prediligo i direttori umili, funzionali e sgobboni (Francesco Ivan Ciampa, Andrea Battistoni). Certo, realizzare un unisono con il coro distante cento metri è continuamente un’impresa...».

Folgorazioni. «La magia dell’Arena ci contagia tutti - precisa Giancarlo Roberti, trombonista di Manerba, all’Opera di Roma fino al ’91, in Arena da quasi trent’anni -. Sei dentro a un rito, a un groviglio inestricabile di terra e cielo, di bellezza e incompiutezza. Ogni grande maestro mi ha donato qualcosa. Mi sono rimasti nel cuore la classe inarrivabile e l’eleganza suprema di Lorin Maazel, la carnalità di Georges Prêtre. Chi mi ha letteralmente folgorato è stato Angelo Campori: nessuna parola, se non per dire che le prove erano terminate. Con un solo cenno afferrava l’orchestra e la portava dove voleva. Una sua semplice occhiata raddrizzava sbilanciamenti, modellava tinte, fissava dettagli. Come il suo gesto parlasse con precisione assoluta al cuore di ognuno di noi 200 musicisti rimane per me un enigma. Tanti direttori piacciono perché gigioneggiano, esibiscono chiome svolazzanti e saltelli».

«Negli anni Duemila fece le sue ultime apparizioni Carla Fracci - rievoca Alberto Bardelloni, trombettista di Calcinato -: un’arcana delicatezza, signorilità e stile incomparabili». «L’Arena mi ha accompagnato, formato, educato - racconta il trombettista Aldo Epis di Bovezzo, in Arena dal 1980 al 2000, tre lustri al Teatro Donizetti di Bergamo, poi Parma, Mantova, Padova -. Avevo 20 anni... Pavarotti, Carreras, Domingo, Montserrat Caballé mi sono entrati nel sangue. Ho visto il maestro Nello Santi dirigere oltre cento opere diverse a memoria. Ho suonato con lui almeno 300 Aide: mai un’incertezza, una defaillance, un tentennamento. Il ricordo di Angelo Campori ancora mi fa accapponare la pelle: ha condensato il senso dell’intero Otello in un solo colpo di grancassa».

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