Cultura

Rabolli Pansera: «In Thailandia per unire arte, architettura e cura»

Giulia Camilla Bassi
L’architetto bresciano cura la Bangkok Kunsthalle e la Khao Yai Art Forest. Secondo lui, Brescia e il Nord Italia possono diventare «paradigma di una nuova forma di urbanità diffusa e caleidoscopica
L'architetto Stefano Rabolli Pansera
L'architetto Stefano Rabolli Pansera
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Architettura e arte: due prospettive che, incontrandosi, generano visioni in grado di leggere le tensioni del presente e immaginare futuri possibili. Stefano Rabolli Pansera incarna perfettamente questa duplice attitudine. Architetto bresciano, classe 1980, già Leone d’oro nel 2013 e fondatore del St. Moritz Art Film Festival, nel 2023 ha abbandonato la direzione delle gallerie Hauser & Wirth per trasferire il suo laboratorio in Thailandia, alla guida del progetto Khao Yai Art, le cui due anime sono profondamente interconnesse.

Da una parte, la Bangkok Kunsthalle, nel cuore della capitale, dall’altra la Khao Yai Art Forest, a 200 chilometri di distanza, immersa nel paesaggio del parco nazionale. Non semplici spazi espositivi, ma organismi in divenire, dove l’architettura non si impone ma accompagna; non ricostruisce, ma addomestica. L’abbiamo incontrato per parlare di Bangkok, ma anche di Brescia.

Come nasce Khao Yai Art?

I due progetti nascono dall’intuizione della proprietaria Marisa Chearavanont, che, durante il Covid, visse per circa un anno nel parco nazionale di Khao Yai. Lì, ebbe l’intuizione di sviluppare un progetto che partisse dal concetto di «healing», del prendersi cura.

Come è nata la vostra collaborazione?

Ci siamo conosciuti quando lavoravo come direttore della galleria Hauser&Wirth a St. Moritz. La signora acquistò un gruppo di circa 200 opere della Collezione Panza. Con questo nucleo decise di aprire un museo per Khao Yai, chiedendomi di diventarne direttore. Quando arrivai in Thailandia, le dissi che sarebbe stato fondamentale aprire non solo nella foresta, ma anche a Bangkok.

Ha ripensato totalmente all’idea del museo...

Il concetto di museo è completamente obsoleto. Entrambi i progetti sovvertono la metodologia classica, perché il progetto architettonico è il programma curatoriale. Nel caso della Kunsthalle, mi rifiuto di lavorare con gli architetti che impongano una visione sull’edificio, ma chiedo agli artisti di intervenire piano per piano. Così, mostra dopo mostra, addomestichiamo l’edificio.

Ci spieghi meglio...

Non cambiamo l’edificio, ma lo teniamo com’è, facendo solo piccole modifiche per permettere agli artisti di lavorare. Questo ci consente di non cadere nel feticcio della struttura architettonica. Se un artista ci chiede di trasformare interamente lo spazio e dipingerlo di bianco, possiamo farlo senza rimpianti romantici.

E a Khao Yai Art Forest?

Vogliamo che Khao Yai Art Forest diventi un’istituzione di land art 2.0, in cui le opere non vengono imposte sul paesaggio, ma ne rivelino le forze invisibili che sfuggono ai nostri sensi. Quello che auspico è che le opere non vengano neppure riconosciute come tali. A Khao Yai Art Forest, l’artista Fujiko Nakaya ha modificato la topografia di una collina, disegnando una foresta di nebbia che non si dissipa al primo soffio di vento. Quando le persone arrivano, non si rendono immediatamente conto che questa sia già l’opera d’arte.

Il tema de prendersi cura richiama quello della sostenibilità.

I temi della sostenibilità e dell’impatto ecologico non possono più essere ignorati. Prendersi cura non è solo curare il paesaggio, ma ridurre anche lo spazio antropico. Usare la natura è un grande insegnamento del buddismo della foresta thailandese, praticato da monaci che vivono a stretto contatto con essa, utilizzandola senza consumarla.

E cosa pensa invece di Brescia, che definì paradigma della città diffusa?

Sono convinto che tutto il Nord Italia e Brescia, nello specifico, possa diventare paradigma di una nuova forma di urbanità diffusa e caleidoscopica, anche se c’è un ritardo politico e sociale nel capire e dare forma a questo spazio. Quando viviamo in tempi oscuri, l’unico sguardo di cui fidarci è quello degli artisti. È interessante che gli artisti vedano questo territorio che sfugge alle categorie. Basta uscire dal confine storico della città per capire che ci muoviamo in un paesaggio entropico, in cui campagna, città, presenze storiche e industriali sono coesistenti e confuse. Questa è la crisi della città tradizionale, certo, ma anche un’opportunità per la nascita di nuove forme di urbanità e nuove idee.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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