Antonella Di Bartolo: «Puntare sulla scuola per indebolire la mafia»
La ventiduesima edizione della Rassegna della Microeditoria, che in questo weekend riempie di lettori le sale di villa Mazzotti a Chiari, ha come nume tutelare il maestro Alberto Manzi, che negli anni Sessanta, dallo schermo televisivo, insegnò a leggere a una moltitudine di italiani.
È apparsa ieri molto in sintonia con quella importante vicenda educativa la presenza di Antonella Di Bartolo, la dirigente scolastica autrice del libro «Domani c’è scuola» (Mondadori, 132 pagine, 17 euro) nel quale racconta la sua esperienza come preside dell’Istituto Sperone-Pertini, nel quartiere palermitano di Brancaccio.
La scuola disastrata
A Chiari ne ha parlato con Paola Zini, docente di Pedagogia dell’Università Cattolica. Ha raccontato come una scuola disastrata e vandalizzata, abbandonata dagli studenti (c’era il 27% di dispersione scolastica) e in procinto di essere chiusa sia diventata negli anni un modello innovativo.
«Il quartiere Brancaccio – racconta Di Bartolo – è un bancomat della mafia, una delle più fiorenti piazze di spaccio del Sud Italia. I ragazzi che non vanno a scuola sono la manovalanza di questa attività. Io ci sono andata per scelta: la mia generazione è figlia delle stragi del 1992, gli attentati a Falcone e Borsellino, e dell’assassinio di don Pino Puglisi nel settembre ’93. Molti, in quel periodo, si chiedevano come schierarsi per reagire a quei fatti. Io ho voluto lavorare in una scuola nello stesso quartiere di don Puglisi».
La giovane dirigente, ancora inesperta, ha trovato una situazione inimmaginabile: «Alla firma del contratto mi fecero le condoglianze... Nella mia prima visita in una scuola del plesso, trovai le lavagne appese al posto delle porte dei bagni e tutte le finestre con i vetri rotti. Io, col mio bell’abitino e le scarpe coi tacchi, capii quanto ero impreparata ad affrontare quella situazione. Mi arrabbiai con tutti; ma proprio in luoghi come questi è possibile far leva su risorse che non si sapeva di avere, e incontrare tante persone per bene».
Fare squadra per cambiare
Andando a cercare porta a porta le famiglie del quartiere, Di Bartolo è riuscita a rianimare un istituto che il Comune, rassegnato, voleva chiudere. La preside insiste sul fatto che il merito non è soltanto suo: «È stata un’impresa di comunità, perché si può cambiare solo facendo squadra. La rinascita dello Sperone-Pertini è frutto di una scommessa fatta con tante persone, a cominciare dai 1209 bambini che oggi lo frequentano. Sono andata a chiedere aiuto al panettiere, al cartolaio, alla farmacista... e ho compreso come certi territori del nostro Paese non siano ben conosciuti nelle loro ricchezze meravigliose. Abbiamo ricostruito tutto dalle fondamenta, iniziando col far nascere una scuola materna che non c’era».
Le difficoltà
Di Bartolo non nasconde le difficoltà, il senso di solitudine anche privato, dovuto a un impegno totalizzante che in famiglia trovava poco sostegno. E il difficile contesto, una città «con immense zone grigie e una mafiosità diffusa, come avviene dove il favore si sostituisce al diritto. Schierarsi era necessario. Durante il Covid alcuni boss mafiosi stavano tornando al Brancaccio, spostati dal carcere ai domiciliari. Avrebbero così potuto riprendere il pieno controllo del territorio. Una decisione assurda, che si sta riproponendo oggi. Io scrissi un post in appoggio alle parole di Maria Falcone, che aveva criticato questa scelta. Il giorno dopo trovammo la scuola distrutta: avevano spaccato tutto, rotto i vetri, e per sommo spregio avevano urinato e defecato sui giocattoli dei bambini. Fu una prova importante: tutto era devastato ma non i rapporti umani, perché ci fu un abbraccio ancora più forte con le famiglie e i loro figli».
Fonte di luce
Oggi la scuola è tornata ad essere una fonte di luce, metaforica e concreta: «Due anni fa, per tre mesi il quartiere rimase al buio a causa di un furto di rame in alcune centraline. Noi avevamo ancora l’elettricità; di notte tenevamo accese nei sette plessi tutte le luci delle scuole, in aiuto agli abitanti. I bambini ci dissero: l’unica luce che vediamo nel quartiere è la nostra scuola».
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