Cultura

Alice, il Salone del Libro e i libri consigliati dalla redazione per maggio

Giovedì è iniziata la 35esima edizione del Salone di Torino: vi auguriamo di farci un salto con alcune recensioni di libri che ci sono piaciuti
Un'illustrazione di Alice nel paese delle meraviglie di Emanuele Luzzati
Un'illustrazione di Alice nel paese delle meraviglie di Emanuele Luzzati
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Il tema è lo specchio, quello di Alice nel Paese delle Meraviglie. Ma anche quello di Narciso, che morì affogando nel proprio riflesso. Entrambi ritornano per ricordarci, ciascuno a suo modo, che siamo chiamati a relazionarci con la realtà con più coraggio, con immaginazione e con un po' di quella capacità trasformativa della protagonista del libro di Lewis Carroll, senza più pensarci come esseri separati appunto da uno specchio.

È questo il tema della 35esima edizione del Salone del Libro di Torino, l’ultima con la direzione di Nicola Lagioia prima del passaggio di testimone ad Annalena Benini nel 2024, che è cominciata giovedì con il titolo «Attraverso lo specchio». Cinque giorni ricchissimi, con 1600 incontri e ospiti tra i quali quelli due premi Nobel per la Letteratura - Wole Soyinka e Svetlana Aleksievič -, Michela Murgia, dopo l’intervista in cui ha raccontato di avere un cancro al quarto stadio, Zerocalcare, Fernando Aramburu, Roberto Saviano, Milo Manara e tantissimi altri ancora.

In questi anni il Salone del Libro di Torino è diventato una delle fiere dedicate ai libri più importanti in Europa. Consiglio spassionato di chi scrive: se potete, andateci (finisce lunedì 22 maggio).

Qui intanto i nostri libri consigliati per il mese di maggio, tra cui alcuni firmati da ospiti del Salone. Per scriverci basta cliccare sulle firme in calce alle recensioni. Ci risentiamo a giugno!

«Irina Nikolaevna o l’arte del romanzo»
di Paola Capriolo

La copertina di «Irina Nikolaevna o l’arte del romanzo»
La copertina di «Irina Nikolaevna o l’arte del romanzo»

(Bompiani, 2023, 254 pp., 17 euro) 

C’è una misteriosa figura femminile al centro del nuovo libro di Paola Capriolo, «Irina Nikolaevna o l’arte del romanzo», una esaltante conferma e insieme una sorpresa per chi conosca il percorso artistico più che trentennale dell’autrice.

Siamo a Sanremo nel 1881, fra gli ospiti internazionali della Riviera, le cui lussuose ville si susseguono lungo l’antica strada romana. Lì abita Lady Brown, in cerca di una nuova dama di compagnia. L’anziana signora inglese è subito stregata dal fascino di Irina, e la assume, benché lei rifiuti di rivelare il suo cognome e le sue origini, accennando al «sangue dei boiardi» che scorrerebbe nelle sue vene, e lasciando intendere di essere nata illegittimamente da un casato famoso.

La vita serena delle due donne è allietata dalla compagnia di due aristocratici gatti, e si interseca con quella di altri personaggi: una vicina di casa facoltosa e piena di talenti; un anarchico molto malato, che Lady Brown accoglie in casa dopo il terremoto del 1887; il futuro Kaiser, anch’egli molto malato, che attira a Sanremo nobili e giornalisti celebri fra cui Matilde Serao. Tra gli illustri vicini di casa ci sarà pure lo scienziato Alfred Nobel, che amerà Irina come una figlia, ed elaborerà con lei l’iniziativa del celebre premio, nato allo scopo di legare il suo nome a una causa nobile e non alle sue ricerche scientifiche in tema di esplosivi.

Il libro di Paola Capriolo coinvolge il lettore in un valzer di emozioni e di personaggi, evocando un’epoca ancora spensierata e felice, alla vigilia di un’altra di cui si avvertono già gli echi di guerra. Per quanto riguarda il mistero di Irina, sarà svelato nelle ultime pagine, che spiegano cosa c’entri «l’arte del romanzo»: il libro si congeda dal suo lettore lasciandogli molto su cui riflettere, e convincendolo che la scrittura della Capriolo è tutto fuorché «inattuale». Affondare lo sguardo nell’animo umano, con profondità e con un filo di ironia e di divertimento, osservare il mondo come un paesaggio ben descritto, utilizzare al meglio la nostra bella lingua italiana, raccontare una donna libera, indipendente e non convenzionale: questo fa Paola Capriolo, donando al lettore quella rara gioia spirituale che solo gli autori non contraffatti possono donare. 

Quanto alle motivazioni del raccontare proprio oggi una storia ottocentesca, ci dice qualcosa la scrittrice stessa, intervistata da Francesco Mannoni sul Giornale di Brescia del 30 marzo 2023, quando dichiara: «Ho completato la prima stesura pochi giorni prima che Putin invadesse l’Ucraina, e forse nemmeno questa coincidenza è priva di significato».

(Paola Carmignani, redazione Cultura e Spettacoli)

«Fuga a Est»
di Maylis de Kerangal

La copertina di «Fuga a Est»
La copertina di «Fuga a Est»

(traduzione di Maria Baiocchi, Feltrinelli, 2023, pp. 95, euro 12,99)

Cento pagine che si divorano. Letteralmente. E più si prosegue nel racconto, più appassionano i tratti dell’esistenza umana concentrati nei protagonisti.
Lei è Hélène, francese. Lui Alëša, russo. Entrambi in fuga, si incontrano sulla Transiberiana, la ferrovia che collega Mosca a Vladivostok, passando per le lontane e gelide steppe della Siberia. Diecimila chilometri. 

Fuggono da una situazione che non possono più sopportare: lei dall’amante russo (si sorprende a pensare che, per scappare verso Parigi, sia salita su un treno che la allontana dalla Francia migliaia e migliaia di chilometri); lui vuole proprio scendere dal treno che lo porta ad est insieme ad altre giovanissime reclute. Vuole interrompere quel viaggio che dura ormai da quaranta ore e che, quasi certamente - ormai l’ha capito - lo condurrà in una caserma della temuta Siberia, privandolo della libertà.

Per Maylis de Kerangal non si tratta solo della «fuga» ma della «paura» instillata, innanzitutto, dal luogo che stanno attraversando, quella Siberia protagonista di tensioni politiche e usata come colonia penale da zar e dittatori. Uno spazio di inquietudine che coinvolge anche i viaggiatori.
Di tensione e inquietudine sono carichi anche gli sguardi che si scambiano Alëša e Hélène. E che, con i gesti, rappresentano l’unico modo che hanno per capirsi, complici estranei della comune fuga da un presente insopportabile. 

Non è una storia d’amore, la loro. È una solidarietà di sguardi, è una complicità di obiettivi.

Descritti, gli uni e gli altri, con una precisione ed una estrema attenzione ai dettagli che lasciano nel lettore la sensazione di esserci proprio, sulla Transiberiana, e di sentire gli odori che ci sono nella cabina prima classe in cui viaggia la donna francese. Di vederne il disordine che naturalmente si crea nello spazio ridotto di un lungo viaggio. La stessa scrittrice, a proposito dei dettagli, afferma: «La descrizione è durata, è aspettare che la parola esatta arrivi, è ascolto, è lasciare che il perturbante attacchi la vita e metta in moto l’immaginario di un mondo interiore...».

È un libro che si legge in poche ore, ma che è destinato a rimanere a lungo dentro chi l’ha letto.

(Anna Della Moretta, redazione Cronaca)

«La bella confusione» 
di Francesco Piccolo

La copertina di «La bella confusione»
La copertina di «La bella confusione»

(Einaudi, Supercoralli, 2022, pp. 296, euro 20)

1963. Sono passati sessant’anni dall’anno di uscita di due dei film più iconici del cinema (e del fare cinema) italiano: «Otto e mezzo» di Fellini e «Il Gattopardo» di Visconti. Eppure - grazie al nuovo libro di Francesco Piccolo, «La bella confusione» - le vite, il dietro le quinte, la storia dei due registi sembra un romanzo che si srotola ai giorni nostri. Piccolo racconta l’ispirazione che i due registi e le due sceneggiatore hanno rappresentato per lui che, oltre che scrittore, ha firmato i copioni dei successi principali degli ultimi anni.

Il libro si muove tra le vicende degli attori (Claudia Cardinale si dividerà nei mesi delle riprese tra i due set che, appunto, erano contemporanei nell’estate del ‘62) e tra l’ostilità umana e professionale dei due registi, fino a darci un quadro di quanto ancora oggi il cinema che vediamo si origini in buona parte da quei due capolavori degli anni Sessanta. 

Il romanzo è tale nonostante sia forse più simile ad un articolo di cronaca, visti gli aneddoti e la quantità di dettagli. Forse talvolta si perde negli angoli di storie piccole e lontane, o forse proprio questo dà il senso de «La bella confusione».

(Arianna Colzi, redazione Cronaca e Provincia)

«Manhattan Project»
di Stefano Massini

La copertina di «Manhattan Project»
La copertina di «Manhattan Project»

(Einaudi, Collezione di teatro 459, 2023, pp. 264, 16 euro)

Sull’onda della «Lehman Trilogy» (Premio Tony Award), Stefano Massini propone una nuova «ballata fluviale», che in comune con il suo capolavoro ha - come recita la presentazione – il fatto di essere «una storia americana con radici in Europa e conseguenze globali».

Nella Nota iniziale, l’autore ricorda il suo percorso di studio e di scrittura teatrale sulla fisica nucleare e sul «dibattito che condusse alla bomba atomica». Argomento purtroppo tornato di attualità con i venti di guerra che ci circondano, e già trattato in teatro da testi importanti come «Copenhagen» di Michael Frayn (1998), mentre è in circolazione «Hiroshima mon amour», spettacolo teatrale tratto dalla sceneggiatura di Marguerite Duras per l’omonimo film di Alain Resnais.

Massini sceglie una strada tutta sua, raccontando la complessità della materia - come egregiamente sa fare – con la sua gustosa prosa ritmata in chiave jazz, in grado di coniugare la chiarezza delle informazioni date al lettore con la piacevolezza e leggerezza del racconto, giocando sapientemente con iterazioni ad effetto, mescolando lingue e linguaggi con una misura da grande autore.

Il testo è assai piacevole anche alla lettura, benché scalpiti per essere messo in scena, e in più lingue, e da firme prestigiosissime della regia, e con grandi interpreti, come accadde a «Lehman Trilogy». Diviso in quattro parti scandite da titoli che fanno riferimento alla Bibbia (Libro dei Patriarchi, Libro dei Re, Libro dei Profeti, Libro dei Sacerdoti), «Manhattan Project» racconta uno ad uno i grandi fisici nucleari ebrei che, dall’Ungheria, fuggirono negli Stati Uniti, dando vita al «Clan degli Ungheresi»: furono loro in prima linea nello studio della possibilità di costruire una bomba atomica (e nel cercare di prevedere quali sarebbero stati i suoi effetti), in risposta alle ricerche che Hitler in Germania cercava di accelerare il più possibile.

Szilàrd e gli altri del gruppo li vediamo agire in scena (sullo sfondo le grandi figure di Einstein e di Enrico Fermi), poi personaggio chiave diventa Robert Oppenheimer, chiamato a dire «un sì o un no» alla realizzabilità del terribile progetto, non senza, come è ovvio, implicazioni etiche. Altro personaggio che agisce sulla scena è il finanziere Alexander Sachs, ebreo lituano che garantì il maxi-finanziamento dell’operazione, e mantenne i contatti con il presidente Roosvelt e con i capi militari degli Usa.
«Manhattan Project» è opera all’altezza del capolavoro «Lehman Trilogy», si legge d’un fiato e ci ricorda che chi scrive letteratura o teatro aspira a creare un classico, capace di parlare direttamente al presente, e al cuore di ogni uomo e di ogni tempo.

(Paola Carmignani, redazione Cultura e Spettacoli)

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