Cultura

Teatro Grande, con Valerio Magrelli tra i boulevard della Parigi ottocentesca

Per le «Lezioni di storia» il poeta è sul palco sabato con l'attrice Elena Vanni
Il poeta Valerio Magrelli, ospite al Teatro Grande - © www.giornaledibrescia.it
Il poeta Valerio Magrelli, ospite al Teatro Grande - © www.giornaledibrescia.it
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Tra i boulevard della Parigi ottocentesca - la capitale del XIX secolo, secondo la celebre immagine di Walter Benjamin - si muoverà il terzo appuntamento delle «Lezioni di storia» promosse dalla Fondazione Teatro Grande con Editori Laterza, e dedicate alle «Capitali culturali». Il relatore ospitato sul palcoscenico del Teatro Grande sabato, 11 febbraio, alle 11 sarà Valerio Magrelli, uno dei maggiori poeti italiani ed anche un esperto di letteratura francese, di cui è docente all’Università Roma Tre. Accanto a lui, l’attrice Elena Vanni proporrà una selezione di letture. I biglietti costano 10 euro (sconto 50% per studenti); sono in vendita alla biglietteria del Teatro Grande e online su vivaticket.it e teatrogrande.it.

Prof. Magrelli, perché Parigi fu la capitale del XIX secolo?

Basterebbe pensare alla narrativa, al mio adorato Flaubert e al mio detestato Balzac (perché proprio non l’ho mai capito...) o ricordare figure trasversali come Gérard de Nerval e Victor Hugo, che spaziano dal romanzo ai versi con la massima naturalezza. Poi la critica, con Sainte-Beuve che era anche un poeta apprezzatissimo. Senza dimenticare il sommo Stendhal. Nomi che fanno già capire la potenza di fuoco di questo Stato, che era probabilmente la 2ª potenza coloniale del mondo. Troviamo i francesi in Vietnam, alle Mauritius, in Messico, in metà dell’Africa... Questa è anche la grande differenza con l’Italia, che era - al pari della Germania - un paesetto frammentato e provinciale.

Un nome su tutti, Charles Baudelaire: con lui, scrive Benjamin, «Parigi diventa oggetto della poesia lirica»...

Baudelaire è l’inventore della poesia urbana, fa di Parigi il prototipo della città. Parla proprio del traffico, delle carrozze che rischiano di uccidere il passante, dell’asfalto, dei boulevard, soprattutto delle rovine che il barone Haussmann provocava nel tentativo di creare la Parigi che conosciamo oggi, la città con boulevard più grandi delle nostre autostrade.

Nel 1857 sia Baudelaire che Flaubert vennero processati...

Nello stesso anno e dallo stesso giudice, per «Les Fleurs du mal» e «Madame Bovary», accusati di immoralità. L’atteggiamento di entrambi è quello della lotta ai valori borghesi. Flaubert lo dice con una violenza e un’oscenità inimmaginabili, e lo stesso fa Baudelaire quando se la prende con il Belgio e con Bruxelles, la «Capitale delle Scimmie». Ai suoi occhi i belgi rappresentano l’utilitarismo, l’atteggiamento commerciale e interessato tipico del borghese di allora.

Una figura centrale è il «flâneur»: quali sono le sue caratteristiche?

Qui ritroviamo Baudelaire e alle sue spalle Edgar Allan Poe, autore di un racconto, «L’uomo della folla», in cui descrive la solitudine nella folla. Baudelaire seguirà il suo maestro praticando questo andare sfaccendato, privo di scopo che è la caratteristica del flâneur, evoluzione della figura tedesca del "wanderer". Ma il wanderer cammina nella natura, il flâneur nella città.

Ha dedicato un libro («La mente e l’odio», Einaudi) al rapporto tra Proust e Céline. In che misura essi sono figli della Parigi di quel tempo?

Sono figli di due Parigi contemporanee ma diverse. Céline proviene dalla piccola borghesia messa in pericolo dall’industrializzazione: la madre commerciava in merletti, abitavano in un «passage» angusto e maleodorante, lui fece esperienze squallide di lavoro, finì medico dei poveri. Rispetto a tutto ciò, Proust è il suo nemico: altoborghese, omosessuale, di origini ebraiche... Céline arriva all’antisemitismo per gradi, ma alla base di tutto c’è una differenza di classe e di sentire: io parlo proprio dell’odio di Céline per Proust, anche se alla fine con un colpo di teatro quest’odio si trasforma - in alcuni passi sorprendenti - in sconfinata ammirazione. Cosa resta oggi di quella «capitale»? Ho conservato una vignetta apparsa su «Le Monde» una decina d’anni fa, in cui un personaggio dice lamentandosi: «Ormai non parlano più nemmeno del nostro declino». Una battuta che fa capire quanto quella egemonia culturale sia superata.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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