Mauro Pagani si racconta: «Un viaggio taumaturgico dentro la mia vita»

Da Chiari all’Olimpo della musica italiana. C’è tutta la traiettoria umana e artistica di Mauro Pagani in «Nove vite e dieci blues», l’autobiografia del musicista bresciano che esce mercoledì prossimo per Bompiani.
Supervisionato da un altro eminente concittadino, lo storico della musica Franco Zanetti, il libro (304 pagine, 17 euro) è uno scrigno di ricordi e aneddoti, scritto da Pagani in prosa puntuale e fluente, che procede in progressione cronologica, con alcune digressioni emozionali.
C’è dentro tutto ciò che Mauro ha voluto rievocare di sé, al termine di un processo di selezione che gli ha permesso di fare ordine in «un mare di roba che galleggiava confusa» in seguito a un improvviso cortocircuito del suo cervello. Ci sono dunque: la solitudine di un bambino che leggeva i classici e imparava a suonare il violino all’ombra di un padre che faticava a capirlo; l’irrequietezza del liceale alla ricerca di senso; le prime esperienze musicali, la vita da rocker con la Premiata Forneria Marconi, la carriera solista; ma anche (fuggevolmente) gli amori, gli incontri e le amicizie (tra cui quella con Demetrio Stratos, condita da un senso di privazione, alla sua morte), la scoperta del mondo e i capolavori («Creuza de Mä», composto con De André: una pietra miliare della musica di fine 900), le colonne sonore e la produzione discografica, le perdite. Fino al momento dei bilanci.
Abbiamo intervistato Pagani.
Mauro: «Nove vite e dieci blues» nasce dall’esigenza di riordinare i ricordi in seguito a un imprevedibile black-out. La mossa ha funzionato?
È stato come svuotare gli armadi e fare pulizia: un viaggio taumaturgico dentro la mia vita, in cui ho ritrovato tante cose belle di cui essere orgoglioso e caz..te di cui lo sono meno, ma che adesso guardo con indulgenza. Trovata la chiave di accesso, mi sono goduto il percorso, potendo contare sull’aiuto di alcuni amici dotati di ottima memoria e di buoni archivi.
Tra gli addii del libro, quello all’amico Fabrizio De André trasmette l’impressione di qualcosa di irrisolto. È così?
Lo è fino a un certo punto. Da un lato perché è mancato un congedo vero e proprio con l’uomo più acuto e intelligente che ho avuto la fortuna di conoscere; dall’altro perché avremmo dovuto fare un nuovo lavoro insieme, che è rimasto un’idea. Da Fabrizio, così pieno di talento, inimitabile nell’uso della parola, sempre profondo pur non smettendo mai di approfondire, ho imparato ad ogni modo tantissimo.
Un esempio?
Ridurre all’osso, con discrezione e senso della misura, che lui rendeva attraverso frasi emblematiche: «Quando non sai cosa aggiungere, togli» e «Ogni cosa non necessaria è superflua».
Rievocando la preparazione di «Creuza de Mä», argomenta che le sonorità folk-rock le erano venute a noia, mentre cresceva l’attrazione per quelle mediterranee e di world music. La sua carriera dimostra peraltro come la contaminazione e l’esplorazione di nuovi universi sonori, magari integrando quelli passati, sia un processo continuo...
Sono convinto che la cosa più bella al mondo sia imparare. Ascoltare, mettersi nei panni degli altri, apprendere: fa star bene e aiuta a crescere. Anche perché c’è un patrimonio inestimabile che ci precede. Ricordo la lezione di un grande suonatore di launeddas (strumento a fiato della tradizione sarda, ndr), il maestro Dionigi Burranca. Da solo, faceva ballare per ore centinaia di persone: sembrava improvvisare tutto, da funambolo, e invece mi confidò che per il novanta per cento si trattava di musica scritta da chi lo aveva preceduto e che lui aveva fatto propria, attraverso lo studio. Imparare significa avere il massimo rispetto per la conoscenza.
È un elogio dell’essenziale?
Sarà che ho fatto parte di gruppi che cercavano un suono molto articolato, anche troppo, ma tendo ora a dare un peso preciso a ogni nota. Le maneggio con attenzione, affinché non vadano sprecate.
Brescia, Milano, Genova, New York: sono le città della sua vita e del suo cuore. Come le definirebbe?
Brescia è il posto dove succedeva poco e si sognava tanto. A Milano (intensa, dura e pure pericolosa, nei primi anni in cui ci stavo) succedeva tanto e si continuava comunque a sognare; ma essere vicini ai sogni può risultare più doloroso. Genova l’ho vissuta soprattutto grazie a un genovese innamorato della sua città, che però viveva a Milano (Faber, ndr). New York è di nuovo la città dei sogni irraggiungibili, in cui le cose succedono, ma sempre altrove, e dove la gente suona per il piacere di suonare.
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