Ben Harper, concerto all'insegna della classe per migliaia di spettatori
Folla, entusiasmo, ripetute ovazioni per Ben Harper, ieri sera. Il concerto di gran lunga più significativo della XXX edizione della Festa di Radio Onda d'Urto non ha deluso le attese, premiato da una cornice di pubblico esagerata, con migliaia di spettatori (6-7 mila? Difficile dirlo con precisione) che hanno occupato ogni anfratto, fin dall’esibizione dei gruppi-spalla, i Safari Station, con il loro stoner rock-blues, quindi il collettivo romano Il Muro del Canto, latore di un folk elettrico ed emozionale.
L’avvio è da brividi: a cappella, Harper intona «Below Sea Level», che è pure la canzone d’apertura di «Bloodline Maintenance», disco solista di moderno soul, uscito il 22 luglio. È come riallacciare un discorso interrotto, attraverso un’interpretazione singolare, accolta in religioso silenzio («vale da sola il biglietto» sento dire accanto a me), anche se poi il mood è destinato a mutare, perché con Harper ci sono gli Innocent Criminals e quindi ci si prefigura un sound più mosso. Infatti, deflagra la carica elettrica di «Burn To Shine», gemma del secolo scorso, che si acquieta un po’ con la pur strepitosa «Don’t Give Up on Me Now».
È un live che attinge da tutta la discografia di Harper, dipanandosi su binari di blues, rock e r&b, con coloritura reggae («Jah Work»). Ed è uno show avvolgente, che sa di legno e scalda i cuori senza ricorrere a scenografie. Seduto, con la chitarra sdraiata sulle ginocchia (in modalità lap steel, marchio della casa), Harper mette in fila «To Will To Live» e «Steal My Kisses», percorrendo le praterie di un blues elettrico contemporaneo che guarda con trasporto (e intelligenza) al passato, «musica che pone l’emozione al primo posto».
Poi rimette lo strumento a tracolla per un altro classico da urlo, «Burn One Down» (da «Fight for Your Mind», del 1995), prima di puntare su «We Need To Talk About It», nuova e sincopata nell’andamento, con una prima strofa che Harper (afroamericano con ascendenti europei e cherokee) scaglia come una stilettata: «Schiavitù: abbiamo bisogno di parlarne. Io dico Black Live Matters, perché la storia dice di no. Sei un cristiano o un razzista: non puoi essere entrambe le cose». Nuovamente a chitarra sdraiata, strumentale e virtuosistico (con «Faded», «The Ocean», «Lebanon»), quindi alternando stili e lucidando gemme inossidabili, da «Inland Empire» alla sublime «Diamonds on the Inside». Ora tenero («Waiting on a Angel», «Amen Omen»), ora dolcemente trascinante (il reggae di «Finding Our Way»), a un certo punto ringrazia e spiega che «questa incredibile chitarra che suono è stata costruita da mani italiane, anche se il legno viene dalla Guinea». Quando dobbiamo chiudere, per esigenze di stampa, la serata è giunta ai bis, ma pare in grado di regalare altra gioia supplementare.
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