Cannabis light a rischio in Italia: cosa cambia col decreto Sicurezza

La cannabis light in Italia rischia di scomparire. Con l’entrata in vigore il 12 aprile del «decreto Sicurezza», d.l. 48 del 2025, convertito in legge dal Senato il 4 giugno, anche i prodotti al Cbd (cannabidiolo) rischiano infatti di diventare illegali. Rischiano perché non c’è ancora totale chiarezza su cosa sia lecito e cosa non lo sia.
Un’inversione a «u» rispetto al passato quella effettuata dal governo Meloni, un deciso passo indietro rispetto a quanto sancito dalla legge 242 del 2016, che di fatto aveva reso possibile commercializzazione e produzione di prodotti derivanti dalla canapa (Cannabis sativa Linnaeus) purché con concentrazione di Thc (delta-9-tetraidrocannabinolo) inferiore allo 0,6% (soglia sotto la quale non presenta caratteri di psicoattività) e in linea con quanto previsto dal Testo unico sugli stupefacenti del 1990 (legge 309) che addirittura fissa questo limite allo 0,5%.

Il decreto Sicurezza
Ebbene, con un colpo di spugna l’esecutivo ha deciso di fare di tutta l’erba un fascio. L’articolo 18 del provvedimento vieta infatti «l’importazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli olii da esse derivati». Ciò significa che ogni prodotto a base di canapa è vietato, fatto salvo il richiamo, e qui sta il cortocircuito, al già citato Testo unico del 1990 che dichiara illegale prodotti con Thc superiore allo 0,5%.
Il divieto non si estende invece ai semi (hanno bassissimo contenuto di Thc ma non devono essere utilizzata per la coltivazione) ai derivati della canapa alimentare (olio, farine, proteine), nonché ai prodotti destinati alla cosmesi. Resta parimente fuori tutto il mondo della cannabis terapeutica, anche per prodotti a base di Thc.
Le sanzioni
Dal punto di vista penale, stando a quanto sancito dall’articolo 73 del Testo unico, la produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope, sono punite con la reclusione da 6 a 20 anni e con la multa da 26mila a 260mila euro. Pene maggiori sono previste se il reato è commesso da chi detiene l’autorizzazione a coltivare, produrre, importare, esportare, commerciare sostanze stupefacenti o psicotrope, mentre pene inferiori si applicano ai casi lieve entità.
Il settore produttivo
Un scelta quindi che fa discutere e che soprattutto rischia di mettere in ginocchio un settore produttivo che, stando ai dati forniti dall’associazione Imprenditori canapa Italia (Ici), è composto «da circa 3.000 aziende e oltre 10.000 operatori stabili, a cui si aggiungono altrettanti lavoratori stagionali. Il volume di affari generato supera i 500 milioni di euro annui e circa il 95% delle infiorescenze di canapa industriale prodotte in Italia è destinato all'esportazione, principalmente verso altri Paesi dell'Unione europea».
In tal senso anche la Corte di Cassazione si è più volte espressa contro l’equiparazione tra prodotti con concentrazione di Thc superiore o maggiore di 0,5% (0,6% come tolleranza tecnica per le coltivazioni secondo la legge del 2016), non avallando la comparazione.
L’ultima indicazione, non tramite sentenza, arriva dalla relazione n. 33/2025 da parte dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Suprema Corte. Nella lettura tecnica del decreto Sicurezza, con specifico riferimento al già citato articolo 18, vengono rilevate possibili questioni di legittimità costituzionale, nonché profili di incompatibilità con il diritto dell’Unione europea.
A Brescia
E in questo quadro anche il settore bresciano rischia di scomparire. Per anni i produttori di canapa hanno usato la pianura Padana come epicentro dei loro business, a volte per produrre altre invece, in modo meno trasparente, per stabilirvi la sede legale. Adesso invece molte aziende hanno deciso di trasferire baracca e burattini, concentrando le produzioni fuori dall’Italia, con Spagna ed Est Europa tra le destinazioni privilegiate.
A dir poco incerto anche il destino dei tanti negozi fioriti in tutto quanto il Bresciano e destinati in modo specifico alla vendita di prodotti a base di cannabis light. «Moltissimi hanno già chiuso, altri commercianti come me tengono duro, nonostante problemi con consegne e spedizioni perché sappiamo di agire nella totale legalità - racconta un negoziante della città -. Non solo è assurda la decisione di vietare questi prodotti che sono leciti in tutta Europa, è legalmente discutibile e ingiusto: tante persone hanno aperto delle attività che rappresentano la loro vita e che garantiscono lo stipendio. Come si può di chiudere tutto da un giorno all’altro?».

Eppure alcuni vanno avanti, «aspettando solo lo sceriffo di turno che ci farà abbassare la serranda. Noi però siamo nel giusto e dalla parte della legge, come detto dal Testo unico del 1990, dalla legge del 2016, dalla Corte di Cassazione e come recitano le tasse che paghiamo».
«Nessun divieto»
Per Nicolò Savoldelli, alla guida del brand Honest che dal Garda si è allargato in tutta la provincia e oltre, siamo invece di fronte «a una mistificazione: non è vero che i prodotti Cbd sono illegali perché l’articolo 18 del decreto Sicurezza, dopo un prolisso elenco, rimanda alla legge 309 del 1990, quel Testo unico sugli stupefacenti che stabilisce con chiarezza cosa è consentito e cosa non lo è».
Ecco perché per l’imprenditore «siamo di fronte a una barzelletta giuridica che guadagna sul proibizionismo e sulla salute delle persone. In questo momento tanta gente è spaventata ma, se lavori bene da un punto di vista fiscale e con un prodotto sano e proporzionato alla salute nei limiti tecnici consentiti, non hai nulla da temere, perché nel concreto non esiste alcun divieto e nulla è cambiato da prima dell’entrata in vigore della legge ad aprile».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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