Guerra tra Cambogia e Thailandia: cosa sta succedendo

Dopo anni di relativa calma, il confine tra Thailandia e Cambogia è tornato ad accendersi con una violenza improvvisa, quanto prevedibile. Il 24 luglio, nei pressi del tempio di Ta Muen Thom – un sito sacro di epoca khmer al centro di rivendicazioni territoriali mai risolte – si è verificato uno scontro armato che ha rapidamente travolto l’intera zona di confine. In poche ore, gli scambi di colpi di artiglieria si sono estesi a una dozzina di località lungo la frontiera, accompagnati da bombardamenti aerei, razzi multipli e l’intervento diretto dell’aviazione thailandese, che ha impiegato jet F 16 in operazioni offensive. Il bilancio, ancora provvisorio, parla di almeno 16 morti – perlopiù civili thailandesi – oltre 140.000 sfollati e decine di feriti su entrambi i lati. La legge marziale è stata imposta in otto distretti thailandesi, mentre anche in Cambogia sono state avviate evacuazioni su larga scala.
Nella storia
Se i confini tra i due Paesi sono stati storicamente tracciati in modo ambiguo fin dal periodo coloniale, con il trattato franco-siamese del 1907 e la successiva sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 1962 che assegnò il vicino tempio di Preah Vihear alla Cambogia, ciò che oggi alimenta le fiamme della crisi va ben oltre le incerte cartografie. L’attuale escalation, infatti, è lo specchio di una dinamica profondamente politica. Da un lato, Phnom Penh è alle prese con un delicato passaggio generazionale: Hun Manet, figlio del potente ex premier Hun Sen, ha ereditato formalmente il potere, ma fatica a esercitarlo in modo autonomo. Il padre, lungi dall’aver abbandonato la scena, ha rapidamente approfittato dello scontro con la Thailandia per riapparire pubblicamente, gestire la crisi da protagonista e rafforzare il legame emotivo con una popolazione mobilitata attorno al sentimento anti-thailandese.
Cambodia Denies Blame for Border Violence, Accuses Thailand of Aggression - The Cambodia Daily https://t.co/gMKmlak45O
— The Cambodia Daily – ឌឹ ខេមបូឌា ដេលី (@cambodiadaily) July 27, 2025
Dall’altro lato del confine, anche la Thailandia si trova immersa in una fase di instabilità interna. Dopo anni di dominio militare, il ritorno al potere del Partito Pheu Thai ha coinciso con un riavvicinamento dell’ex premier Thaksin Shinawatra, rientrato nel Paese e ancora figura centrale nel sistema politico. Ma è soprattutto la figlia Paetongtarn, emersa come volto nuovo della leadership, a catalizzare oggi le tensioni. Pochi giorni prima dell’inizio degli scontri, è trapelata una telefonata privata tra lei e Hun Sen: sebbene il contenuto della conversazione non sia stato reso noto, il contatto è stato giudicato politicamente imbarazzante e potenzialmente dannoso per gli equilibri diplomatici. Le reazioni non si sono fatte attendere: la premier è stata sospesa dalle sue funzioni con la motivazione ufficiale di un conflitto d’interessi, ma la decisione riflette chiaramente la pressione esercitata da ambienti conservatori e dai vertici dell’esercito, desiderosi di riaffermare la propria influenza. L’incidente è così divenuto un pretesto per ridisegnare gli equilibri di potere, in un Paese dove l’ombra del colpo di Stato del 2014 non è mai del tutto svanita.
Lo scontro
Il conflitto, dunque, agisce come strumento di rilegittimazione per élite indebolite: da una parte un figlio che cerca di affermarsi all’ombra ingombrante del padre, dall’altra una dinastia politica che rischia il tracollo e si vede costretta a ripiegare sul nazionalismo per arginare le crepe interne. In questo quadro, l’elemento militare appare meno una causa e più un sintomo. Il fuoco incrociato lungo la frontiera, i civili feriti, i villaggi evacuati: tutto questo diventa funzionale a una narrazione di forza, identità e autodifesa, utile a rinsaldare un consenso traballante. A livello diplomatico, gli sforzi per contenere la crisi si sono rivelati finora fragili. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha dichiarato il proprio sostegno a una proposta di cessate il fuoco avanzata dalla Malesia, attuale presidente di turno dell’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico (ASEAN).

Anche la Thailandia, pur respingendo mediazioni multilaterali, ha avanzato proposte di de-escalation attraverso canali bilaterali e si è detta favorevole a una tregua immediata. Entrambe le parti, dunque, hanno compiuto aperture formali, ma finora in modo più tattico che sostanziale: non vi è stata, aleno per ora, alcuna azione coerente sul campo che indichi una volontà autentica di chiudere il conflitto. Le dichiarazioni di disponibilità al cessate il fuoco sembrano principalmente funzionali a rafforzare le rispettive posizioni negoziali, mantenendo intatto lo spazio per ulteriori azioni militari se ritenute opportune. Intanto, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha discusso la questione in una riunione d’urgenza a porte chiuse, senza però produrre risultati concreti. Cina, Stati Uniti e Unione Europea hanno espresso preoccupazione, ma restano ai margini di un conflitto che appare troppo «locale» per scatenare un reale intervento internazionale, eppure troppo denso di implicazioni regionali per poter essere ignorato.
Cambodia’s rocket attack killed another civilian and damaged a school that was later evacuated in Si Sa Ket’s Kantharalak District.
— Thai Enquirer (@ThaiEnquirer) July 27, 2025
On the afternoon of July 27, Cambodian forces fired BM-21 multiple rocket launchers into Bueng Malu Subdistrict, killing a Thai man in his 60s and… pic.twitter.com/OoPJbBCh18
Il timore, crescente, è che le due parti possano scegliere di prolungare lo scontro a bassa intensità, utilizzandolo come valvola di sfogo e come leva di stabilizzazione politica interna. In tale scenario, i costi umani e materiali rischiano di aumentare progressivamente, senza che vi sia una vera volontà di soluzione. Le guerre «utili» ai governi sono spesso quelle più pericolose per le popolazioni: e questa sembra seguire esattamente quel copione. Le ferite aperte lungo il confine, gli sfollati ammassati nei centri di accoglienza, le scuole chiuse e i mercati deserti raccontano una realtà che va ben oltre il consueto gioco delle parti tra Bangkok e Phnom Penh.
Resta da vedere se, passata la tempesta mediatica e contenuto il danno politico, i governi avranno il coraggio di riconoscere la natura artificiale della crisi che hanno alimentato. Ma, come spesso accade in Asia sudorientale, la politica interna si gioca anche sul terreno delle mappe, delle rovine antiche e delle frontiere mai veramente accettate. Ed è lì, tra pietre sacre e mine antiuomo, che oggi si decide il futuro di una regione in cui la pace resta ancora, drammaticamente, una variabile politica.
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