Gianpietro Ghidini e la battaglia di chi perde un figlio

Alle tre del mattino, la notte tra il 23 e il 24 novembre di dodici anni fa, Gianpietro Ghidini era fermo su un ponte, sopra il fiume dove poche ore prima suo figlio Emanuele, 16 anni, aveva perso la vita. Davanti all’acqua nera, con il gelo che tagliava la pelle, si trovò davanti a un bivio: «Avevo due possibilità: buttarmi e farla finita o provare a uccidere la parte peggiore di me, quella materialista, convinta che i figli ci avrebbero amato di più se avessimo dato loro più cose. Ho scelto di tornare a casa. Quel dolore poteva essere il mio distruttore, ma ho deciso di trasformarlo nel mio istruttore».
La fondazione
Poco dopo è nata la fondazione «Ema Pesciolino Rosso» e da allora Ghidini gira l’Italia per raccontare la sua storia a migliaia di studenti e genitori. La recente tragedia di Rezzato – una madre che si è tolta la vita nello stesso punto in cui due anni prima era morto il figlio – lo ha colpito.
«Dodici anni fa avrei potuto essere io quella donna. So cosa succede quando il dolore diventa più grande di tutto il resto». A ferirlo è soprattutto la solitudine in cui molti genitori vengono lasciati. Ghidini lo dice con semplicità, quasi con stupore: «Se ti rompi una gamba stai a casa un mese. Se perdi un figlio, dopo tre o quattro giorni devi tornare al lavoro. È disumano».
Nel frattempo bollette, mutui, scadenze continuano ad arrivare identiche, mentre dentro si prova solo a respirare. «Molti hanno qualcuno vicino, un familiare, fratelli sorelle. La maggior parte dei genitori che incontro non ha risorse, non ha una rete familiare. Sono mamme sole, papà separati, persone che rischiano davvero di finire in mezzo a una strada».
La battaglia
Da questa consapevolezza nasce la sua battaglia: una legge che riconosca il bisogno immediato e automatico di sostegno psicologico, sanitario ed economico per chi perde un figlio. Non una concessione, ma un diritto di sopravvivenza. Ghidini parla di centinaia di migliaia di famiglie: «Siamo almeno mezzo milione. Un esercito silenzioso che non interessa più al sistema, perché dopo una perdita così non insegui più il benessere, il correre, il produrre. Non ci riesci, e non dovresti essere costretto a farlo».
Il movimento
Da questa realtà è nato un movimento spontaneo: un gruppo di genitori che, incontrandosi dopo le sue conferenze, ha iniziato a parlarsi, a condividere, a immaginare un’azione comune. «Il dolore può distruggerti – aggiunge – o insegnarti. Io ho provato a trasformarlo in un istruttore». E mentre si avvicina il 23 novembre, giorno della messa per Emanuele nella chiesa di Santa Maria a Gavardo, Ghidini ripete a sé stesso: «Ogni giorno provo a dire grazie alla vita, anche quando fa male. Perché scegliere di restare è una decisione che si rinnova, da quella notte sul ponte in poi».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@News in 5 minuti
A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.
