Fra Alberto Joan Pari: «In Terra Santa la nostra musica per la pace»

Il suo interesse per la cultura ebraica e il mondo semita è nato verso la fine degli studi universitari (è laureato in Pedagogia), quando stava preparando la tesi sui testi usati alle scuole elementari durante il periodo fascista. Fra Alberto Joan Pari, originario di Pontevico, nato a Manerbio, è un frate minore francescano della Custodia di Terra Santa che del dialogo con il mondo ebraico e musulmano ha fatto la sua missione quotidiana. E continua a farlo oggi, soprattutto oggi. Il 7 ottobre (giorno dell’attacco del gruppo estremista Hamas e dell’inizio dell’escalation tra Palestina e Israele) è un nuovo, tragico, spartiacque nella storia di una terra martoriata da millenni. «Noi continuiamo a piantare semi di speranza augurandoci che diventino alberi, abbiamo già visto che è possibile, lo sarà anche in futuro» sottolinea fra Alberto.
Lo stile che testimonia quotidianamente a Gerusalemme è sempre quello di san Francesco: ascoltare, non imporre nulla, porsi al fianco come fratello, condividere. Uno stile capace di seminare speranza in una terra difficile e martoriata come la Terra Santa. I semi di fra Alberto sono (anche) note musicali. Perché nel cuore della città vecchia di Gerusalemme c’è un conservatorio con duecento studenti: ebrei, cristiani, e musulmani, bambini e giovani che suonano insieme. È il Magnificat, nato nel 1995, dal 2005 è convenzionato con il Conservatorio Arrigo Pedrollo di Vicenza.
Fra Alberto, come si vive a Gerusalemme, in Terra Santa?
Inizialmente, per settimane e settimane, non ci si poteva nemmeno incontrare. Il 7 ottobre è stato uno shock collettivo, come paragone possiamo citare l’11 settembre 2001 con l’attentato alle torri gemelle. Quando per la prima volta ci siamo ritrovati il venerdì sera per una cena di Shabbat ero timoroso, e lo ero nei confronti di amici ebrei israeliani con i quali da anni ho costruito un dialogo aperto e reciproco, temevo di scoprire cosa pensassero della guerra. Poi tutto è andato per il meglio, anche per loro è stata la prima occasione per commentare quello che stava accadendo. Va detto che si parla pochissimo della situazione, il trauma è ovviamente fortissimo, ma si cerca di andare avanti. E non è certo facile, su una popolazione di 9 milioni di persone quasi tutte le famiglie sono coinvolte, perché si hanno parenti in guerra o tra gli ostaggi, oppure perché si piange un morto. Nessuno si aspettava una simile violenza.
Cosa ricorda dei primi giorni post 7 ottobre?
Per strada non c’era più nessuno, inizialmente c’era anche il coprifuoco. Si deve poi pensare che gli uomini dai 17 ai 40 anni sono letteralmente spariti perché chiamati per la guerra; così come sono state chiamate le donne, sono rimaste solo quelle sposate con figli. Nessun arabo usava mezzi pubblici o entrava nei supermercati israeliani per paura di linciaggi; molti supermercati nella zona araba non venivano riforniti per paura e perché non c’era più personale. Poi però qualcosa è cambiato, molti israeliani si sono attivati anche per aiutare i palestinesi, gli arabi, per affermare che: non sono tutti terroristi di Hamas. La ferita è certo dolorosissima e lacerante, se anche si trovasse una soluzione a livello diplomatico, per sanare la situazione ci vorranno comunque decenni.
E il Magnificat, di cui lei è direttore: l’attività procede o si è fermata?
Abbiamo riaperto subito dopo la prima settimana online, questo è stato il momento più delicato, i nostri ragazzi erano spaventati, parlavano solo della guerra, degli allarmi per i missili, non riuscivano a concentrarsi. Abbiamo parlato con ognuno, soprattutto agli insegnanti e abbiamo spiegato che la politica sarebbe rimasta fuori, un po’ alla volta abbiamo ritrovato una «normalità». La nostra scuola è qualcosa di unico, nata per fare musica ai cristiani e musulmani palestinesi della città vecchia che non avevano musica: arte e musica non sono obbligatorie nelle scuole. Nel tempo è diventata luogo di coesistenza pacifica. Il conservatorio si trova a San Salvatore, nella sede della Custodia, appunto nel cuore del quartiere cristiano di Gerusalemme, lo abbiamo realizzato nei sotterranei del monastero dove un tempo si preparava la carne per i vari conventi della città, oggi avvicina alla musica centinaia di giovani. All’inizio non c’erano abbastanza insegnanti, la scuola è partita con un frate musicista, fra Armando Pierucci e due insegnanti cristiane. Oggi il 90% degli insegnanti è ebreo israeliano, l’8% è cristiano, un’insegnante è musulmana.
È facile immaginare che comunque anche al Magnificat non manchino le tensioni, i problemi.
Abbiamo una ragazza, ebrea israeliana, che è nell'esercito. Ci ha manifestato la volontà di tornare a studiare appena potrà, però i ragazzi arabi palestinesi sanno che lei, appunto, è impegnata nell’esercito. È venuta a scuola un giorno che aveva la libera uscita, poi non è più riuscita a tornare. Che cosa accadrà dopo, quando tutto questo sarà finito? Sono vicende molto delicate. Sarà una sfida, ma la missione del Magnificat è sempre stata essere un luogo di pace. Continuiamo, e continueremo, a esserlo.
Ci racconti una storia che testimonia speranza.

Musa è un giovane musulmano di Betlemme che suona il clarinetto: il suo insegnante è un ebreo religioso di Gerusalemme. Va precisato che Musa non ha mai ottenuto il permesso di poter lasciare la Palestina e venire fisicamente al Magnificat per seguire le lezioni. Abbiamo così trovato una chiesa luterana che si trova sul confine, in quella terra di nessuno che non è Israele ma ufficialmente nemmeno Palestina, un territorio occupato ma non limitato dal muro. Il pastore protestante ci ha dato il permesso fare le lezioni di clarinetto nella sua chiesa durante la settimana; così Musa e Yekhiel si sono incontrati per circa due anni per ultimare il corso. Nei giorni scorsi Musa si è diplomato a Vicenza.
Come vede il futuro?
Il presente è un Paese totalmente bloccato economicamente, socialmente. Noi cerchiamo di fare il possibile, ma le nostre risorse (che derivavano principalmente dal turismo religioso) si stanno esaurendo. I bisogni sono oltre l’immaginabile, solo per fare un esempio: noi frati garantiamo metà dello stipendio ai nostri dipendenti palestinesi, loro non hanno cassa integrazione e in questo momento tutti coloro che lavoravano nel settore turistico e dei pellegrinaggi sono disoccupati. E poi, dopo decenni, si dovranno nuovamente costruire orfanotrofi, sono già migliaia i bambini orfani. In tutto questo gigantesco dramma, noi ogni giorno (anche con la musica) cerchiamo normalità e bellezza. Non ci stancheremo mai di seminare la speranza.
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