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Bonometti: «Il mondo è pieno di opportunità»

Senza padre a 23 anni, eredita l'Omr con 400mila euro. di ricavi e 50 addetti. Oggi il Gruppo fattura 515 milioni con 3mila dipendenti.
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Non è stata un'intervista, anche se la forma dice il contrario. Una lunga chiacchiera fra due che si conoscono da tanto. Sarà stato un trent'anni fa. Rezzato, la vecchia, primigenia sede della Officine Meccaniche Rezzatesi (ex Officine Tirini, dal nome dei nonni materni, i fondatori: fra i capiofficina di allora Francesco Lonati, patron fondatore poi dell'omonimo gruppo), oggi Omr spa. Una scaletta all'esterno per salire nell'ufficetto. Il Marco Bonometti che arriva tardi all'appuntamento. «Ho dovuto scaricare i polli», disse. Scoprii che prima di entrare in fabbrica passava dall'allevamento di famiglia. E mi disse poi dei suoi progetti, della sua voglia di dar vita ad un grande gruppo. Diede dei numeri. Uno me lo ricordo: arrivare ai 100 miliardi di fatturato. «È matto», mi dissi scendendo la scaletta. Un mitomane.
Aveva ragione lui. Al tempo, credo che le Rezzatesi non facessero più di 20 miliardi di lire di ricavi (che poi sarebbero un 10 milioni di euro), con un centinaio forse di dipendenti. Oggi fattura 515 milioni e di dipendenti ne ha 3mila. Adesso ha 58 anni; a 23 perse il padre. Da un giorno all'altro si ritrovò a dover continuare l'impresa che, al tempo, fatturava 400mila euro con 50 dipendenti.

Marco Bonometti è stato insignito del Cavalierato del Lavoro. Se c'è qualcuno che s'è meritato la nomina, è lui. Lavoro, lavoro e ancora lavoro. «Troppo».

Non mi dirà che ha dei rimpianti. Troppo lavoro fa male?
«Forse. Ma è quello che so fare. Io passo per uno che fa del lavoro la ragione della vita. Forse ho anche esagerato e qualche volta temo di restare con un pugno di mosche. Ho rinunciato ad una famiglia mia. Ma questo è in qualche modo il ruolo che la vita mi ha assegnato. È il senso di responsabilità che mi porto dietro. Con i vantaggi e gli svantaggi conseguenti».

Bonometti diamoci una mossa: questa è una festa. Festeggiamo un nuovo Cavaliere del lavoro. Contento?
«Molto. Per me, per mia madre e mio fratello, per l'industria bresciana. È il segnale che fare fabbriche è ancora un buon segno, che c'è chi crede a chi fa fabbriche. E - come sempre - un riconoscimento senza spinte, raccomandazioni. Libero, come sempre. Come mi ha sempre raccomandato mio padre Carlo assieme ad un'altra cosa: mai lasciarsi ingolosire troppo dai soldi».

Beh, chi è ricco è un po' più libero degli altri, per molti aspetti.
«Per alcuni aspetti. Ma guardi che io sono ricco perché libero»

Ma che significa essere libero?
«Fare, dire, progettare senza vincoli. Ma la libertà costa. Io posso permettermi il lusso di non andare a cercare lavoro. Ho più lavoro di quel che posso dare al mercato. Ma questa è una condizione che va costruita. E sa una cosa? Poter fare o non fare un lavoro accresce ricchezza e quindi libertà: se un potenziale cliente non mi paga il giusto non prendo quel lavoro e questo mi consente di dedicare risorse a lavori più redditizi. Questa è la libertà».

È una situazione di privilegio, soprattutto di questi tempi. Rischia di non essere simpatico a tanti...
«Non me ne importa."Tanti nemici molto onore", vale anche per chi vuol fare bene il mio mestiere. Ovviamente libero anche nei confronti delle banche perché sono loro che vengono ad offrirmi soldi: io non ne ho bisogno. Ma sa una cosa? Io li prendo lo stesso. Poi vado dai miei fornitori che magari qualche difficoltà col credito l'hanno. E gli dico: se ti pago subito che sconto mi fai? Loro mi fanno lo sconto, io con quello pago gli interessi. E così faccio girare un po' di liquidità nelle imprese.

Lei dice che ha più lavoro di quanto riesca a soddisfare le richieste. È una storia ben strana di questi tempi.
«Guardi, io la vedo così. Il mondo è pieno di opportunità, di cose da fare. Basta aver voglia di farle. È questo che un po' ci manca, che manca anche a Brescia. Manca un po' di grinta, di voglia di tornare a fare, di mettersi insieme per fare qualcosa. E ci sarebbero tante cose da fare. Nuove fabbriche, nuovi mercati.

Ma perché non le fa lei tutte queste nuove fabbriche?
«Ma io non posso fare tutto. Ho già 14 stabilimenti per il mondo. Qui a Rezzato sto investendo 30 milioni: 20mila metri di capannone con un sistema di lavorazione avanzatissimo per i basamenti dei motori della GM. E non è detto che non faccia qualche altra acquisizione. Ma, ripeto, non posso fare tutto».

Da dove viene questa voglia quasi famelica di fare?

«Io credo dal senso di responsabilità che mi è caduto addosso dopo la morte di mio padre. Il trovarmi da un giorno all'altro a guidare la fabbrica e nel frattempo di laurearmi in Ingegneria. Forse anche da un malinteso senso dell'onorare una memoria, di dimostrare che sapevo fare delle cose. E fai una cosa oggi, una domani e poi un'altra ancora e ti sembra che il non fare sia uno spreco».
Una sorta di virus per il lavoro. Visto che le cose le vengon bene ci sarebbe da augurarsi una sorta di epidemia.
«Io penso che tocchi anzitutto agli imprenditori, a noi tutti, dare una mano all'Italia. Non possiamo continuare a dire che questo va male, quell'altro è un ladro, l'altro ancora un farabutto, che le strade non ci sono e via andare. Sì, è vero: è così. Ma la colpa è nostra che selezioniamo male i nostri politici. Ma, detto questo, che altro ci resta da fare se non fare? E' il cuore, la passione, il motore del mondo».

Quand'è che ha avuto la sensazione che fare l'imprenditore fosse il suo mestiere?
«Io praticamente sono partito da zero. E sa una cosa? È meglio farsela la fortuna che mantenerla. Meglio essere self made man che ereditare. Ho capito che avevo un po' di stoffa un po' di anni fa. Un giorno feci un ordine di nuovi macchinari per 27 miliardi di lire. Al tempo ne fatturavo 15, ma avevo trovato la combinazione giusta: macchine dell'allora Germania Est a poco prezzo e alta resa. Era un azzardo. Fu il decollo».

Lei ha fama di essere fra gli imprenditori più «alla mano» con le maestranze, ma anche quello che dà giudizi duri sul sindacato.
Ride. «Se la son presa perché un giorno dissi che il sindacato serve a difendere i lazzaroni. Un po' lo penso. Io vado a mangiare in mensa con i miei operai e c'è chi eccepisce sul «padrone» che familiarizza con gli operai. Ma io sono fatto così. E guardi che non faccio sconti neppure ai miei colleghi imprenditori quando parlo in giunta di Aib. E se vuole glielo ripeto: quando dico che Brescia deve tornare a ruggire a chi vuole che mi riferisca?».

Gianni Bonfadini
 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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