Quello che le mamme non dicono

Sono le otto quando ricevo il messaggio di Anna: «Oggi mia figlia compie 50 anni!» Le rispondo che i cinquanta sono un traguardo importante per ogni donna. Lei mi brucia con la sua saggezza: «Si. E invecchiando cresce la fame di amicizia».
Quando la mattina incomincia con la sensazione malinconica di dover lasciare le cose belle della vita, o si filosofeggia oppure il caffè è uscito una ciofeca. Le sue parole però mi toccano e suscitano una leggera nostalgia. Come in un frame rivedo le mie figlie e i segni tirati sul muro per misurare la loro crescita.
Nel giorno del compleanno dei figli si dovrebbero festeggiare anche le madri. Per renderle felici basta un rametto di fiori di filodelfo staccato da una siepe. Le mamme non vogliono regali, desiderano più una visita o una telefonata per raccontarsi piccole intimità.
Noi donne diventiamo madri per scelta o per destino, ognuna affronta la gravidanza e il parto a modo suo. C’è quella che vomita per nove mesi e quella che avrebbe potuto andare a cavallo. Ognuna ha una soglia diversa di sopportazione del dolore, ma tutte in ugual misura vengono sopraffatte dal travaglio.
Quando il corpo è preso da una forza che coinvolge dalla punta dei capelli fino all’unghia del dito mignolo è facile dimenticare le indicazioni del corso pre-parto. Per fortuna la natura è perfetta e più sicura dell’intelligenza artificiale. I corpi delle donne analfabete rispondono infatti esattamente come quelli delle più istruite, giacché la maternità è un «mestiere» di gran lunga più antico dell’agricoltura.
Nella società frettolosa, salvo complicazioni, veniamo dimesse ancora con i morsi uterini e il seno dolorante per la montata lattea. Usciamo dall’ospedale già col pensiero rivolto al lavoro e determinate a tornare in forma, ma ogni donna ricorda sempre il nome del ginecologo e le ostetriche che l’hanno aiutata. Nella mente resta la traccia distintiva di ogni figlio, anche quando la senilità appanna la mente.
Il legame materno è fortissimo. Lo dicono le esperienze degli figli adottivi che ripercorrono la strada al contrario per riannodare i fili delle loro esistenze. Passano attraverso la cruna dell’ago dei percorsi di adozione per conoscere la donna che li ha messi al mondo, quasi ad affermare ciò che scrisse Goethe: «La cosa più bella nei bambini è il ricordo della notte in cui li abbiamo fatti».
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