Vent’anni di Lio, prima casa dell'underground
C’era una volta una città. Una città che se saltavi su un palco per suonare una canzone che avevi scritto da te... beh, eri considerato uno sfigato. Oggi nella stessa città registri dischi e se sei bravo il locale lo riempi.
Tra «una volta» e «oggi» sono successe tante cose. Una di queste, forse la più importante, si chiama Lio Bar. Un locale stretto e lungo che sorge dietro la stazione di Brescia, tra due rami della ferrovia. E che quest’anno compie due decadi. Tra i luoghi che hanno creduto nella musica indipendente, originale e locale, con ogni probabilità è il primo.
Ha 20 anni, ma a diventare un’istituzione della musica e della vita notturna della nostra città ha impiegato molto meno. «Inaugurai il Lio nella primavera del 1993: inizialmente fece un po’ fatica a ingranare - ammette l’inventore del bar, Lino Torreggiani -. Organizzai qualche concerto ma la situazione non decollava». Poi, però, arrivò un magico Natale. «Il locale prese quota a dicembre ed esplose nella primavera del 1994. In quel periodo già mi erano stati tolti i permessi per far suonare dal vivo. Quindi la musica arrivava dell’impianto stereo. Mettevo dischi di rock anni Settanta, cosa che all’epoca del grunge facevano in pochi. E poi rispolveravo Hendrix». Jimi è un po’ il nume tutelare del Lio e oggi scruta avventori e artisti dalla carta sgualcita di due poster, uno nella sala, l’altro nel camerino.
Prima di proseguire con la storia del locale di via Togni, però, facciamo un gioco. Si chiama «forse non sapevi che». Pronti? Via! Il Lio è un simbolo della città ma il suo inventore viene da fuori: da dove? La storia inizia molto prima del 1993. Quando? Il suo nome ha qualcosa in comune con i film western... Le risposte alla fine del pezzo, ora avanti con la storia.
I permessi per i concerti tornarono nella seconda metà degli anni Novanta e il Lio iniziò a dare spazio anche ai primi artisti bresciani che proponevano i loro brani. Una scelta coraggiosa perché, spiega Torreggiani, «se facevi canzoni tue eri considerato un perdente». Questa politica non mancò di suscitare qualche perplessità nella «vecchia guardia» dei musicisti. All’epoca Lino probabilmente nemmeno immaginava che, di lì a una decina d’anni, il suo locale sarebbe diventato l’Arca di Noè della scena indie-rock targata Bs, una delle più vive d’Italia.
Arriviamo quindi al 2000, anno in cui nacque la serata del martedì con musica live. «Scelsi quel giorno - spiega Torreggiani, che dal 2002 è in società con Gianpaolo Romano - perché era tradizionalmente il meno frequentato. Nel giro di tre settimane fu pienone». Nel 2007, poi, cominciò quella del venerdì, grazie alla collaborazione del direttore artistico Marco Obertini. Arrivò tanto indie-rock, italiano e internazionale. Ma anche e soprattutto da Brescia, che - musicalmente parlando - aveva appena lasciato a terra la pelle grinzosa del bruco e s’era trasformata in farfalla, pronta a dare e accogliere nuova musica, nuove band, nuovi album. Due progetti nati tra le pareti di via Togni, Pink Holy Days e Don Turbolento, sono addirittura stati parzialmente finanziati dal Lio.
Il locale secondo papà Lino si caratterizza per «un’identità semplice e sincera. È mio da 20 anni, ma non mi stanco mai». Poi c’è l’atmosfera, figlia di una posizione sulla carta «scomoda», con le rotaie in faccia e dietro la schiena, che «delimitano uno spazio preciso e fanno sembrare il bar una specie di isola. E, nelle serate giuste, il Lio esce dallo spazio e dal tempo. Potresti essere in California o a Berlino». Il locale fa festa con due serate dal vivo (e come, altrimenti?) in programma venerdì 14 e sabato 15 giugno dalle 22. Sul palco (dopo la benedizione di Jimi) Don Turbolento e Pink Holy Days il primo giorno, Barabonzibonzibo ed Hell’s Spet il secondo.
Ah già, il quiz. Lino viene da Magenta, in provincia di Milano. Il locale esiste da circa 110 anni. Ha ospitato trattorie e osterie (una si chiamava «Le due Ferrate»). Torreggiani girovagò parecchio prima di stabilirsi all’ombra del Cidneo. Attraversò l’America e, in Texas, conobbe una bellissima ragazza che proprio non voleva saperne di chiamarlo Lino. «Leo, Leo», diceva. Lui scelse di italianizzare quella sillaba e di appiccicarla alla sua più grande scommessa. Il Lio Bar.
Daniele Ardenghi
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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