Cultura

Il regista Elia Moutamid: «Io, musulmano di Brescia a Parigi»

Il regista di origini marocchine al Festival Court Devant con il corto pluripremiato «Gaiwan»
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Finalista in 45 festival, ha vinto 10 premi. Senza contare le menzioni speciali. Il 2015 è stato davvero ricco di soddisfazioni per Elia Moutamid, regista nato nella medina di Fès, in Marocco, il giorno di Natale di 33 anni fa, ma subito trasferitosi a Brescia con i genitori.

Il suo cortometraggio «Gaiwan», girato all’interno del cimitero Vantiniano, continua a stupire: quei tre fulminanti minuti, capaci di raccontare gli sguardi tipici di chi vive nel pregiudizio, approderanno il 13 dicembre al festival di cortometraggi Paris Court Devant, organizzato (dal 10 al 20) nel capoluogo francese con il sostegno dalla regione Île-de-France, della municipalità di Parigi e di France Télévisions. Il pubblico d’Oltralpe ha già avuto occasione di apprezzare il film, selezionato in maggio dallo Short Film Corner del Festival di Cannes e in gara al concorso Cannes Short Film Fest in settembre.

Moutamid, è felice di andare di nuovo in Francia? Dopo i tragici attentati, con che spirito parte per Parigi?
Non sono sereno, ma sono contento di avere l’occasione di andarci adesso. Sarà un onore rappresentare l’Italia, nella giornata che tradizionalmente il festival Court Devant dedica ad una singola cinematografia nazionale. Spero, inoltre, ci siano tavole rotonde per riflettere su quanto accaduto il 13 novembre.

Come ha vissuto quei momenti?
Riesco a rispondere solo come «essere umano», senza pensare a questioni culturali o religiose: è stato come venire annientato. Quando ho appreso la notizia ero in Marocco, dove vado abitualmente per incontrare amici e familiari. «Adesso per voi musulmani che vivete in Europa sarà molto più dura» mi sono sentito dire spesso.

Quando è rientrato in Italia ha percepito più pregiudizi?
Sono a Brescia da pochi giorni, nei rapporti quotidiani le cose sembrano come prima: solo i soliti conoscenti mi dicono frasi come «non sono tutti come te», alludendo ad un timore generico nei confronti della cultura islamica, che in realtà non conoscono. Ragionano per stereotipi senza farne mistero. La vera tensione si percepisce però sui social network: on line ho letto affermazioni allarmanti e tanto qualunquismo. Talvolta ci vorrebbe il pudore di stare in silenzio.

Oltre a denunciare la frizione sociale, il cinema e l’arte possono davvero fare qualcosa per avvicinare individui appartenenti a culture diverse?
Certamente. Nelle scuole si dovrebbe insegnare ad analizzare il linguaggio del cinema: vedere tanti film potrebbe essere una soluzione per sgretolare i pregiudizi. Le immagini aiutano ad immedesimarsi, favoriscono l’incontro. Amo i film che riescono in questo intento con ironia e toni leggeri, come «Almanya» di Yasemin Samdereli, nel quale si narra ad un bambino la vita di suo nonno, un turco emigrato in Germania durante il boom economico. Mettersi sulle tracce delle proprie radici e raccontarle è il miglior modo per favorire un incontro sincero con il prossimo. È ciò che desidero fare come regista.

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