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Dal cricket al calcio: il fischietto del Punjab

Amanpreet Singh è cresciuto giocando a cricket nel Punjab. Poi il trasferimento in Italia e la nuova passione per il calcio.
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Quando da piccolo giocava a cricket a Prem Pura, nel Punjab, Amanpreet Singh a tutto pensava, fuorché a diventare un arbitro di calcio. Non un semplice fischietto, bensì il primo indiano a dirigere una gara in Italia.

Un piccolo record, nato per caso. Arrivato a Capriano dodici anni fa insieme ai suoi genitori, proveniente da una cultura profondamente differente rispetto a quella italiana, Aman ha scoperto che in fondo l’hobby preferito dagli europei occidentali non è poi così male: «Fino all'età di sedici anni non avevo mai visto una partita di calcio, poi sono diventato tifoso del Brescia. La prima volta sono andato al Rigamonti con un amico, nel 2005, per una sfida con il Bari. Grazie ad un altro amico mi sono avvicinato all’Aia. All’inizio perché sapevo che con la tessera si entrava gratis allo stadio…».

Poi, però, quella di arbitrare è diventata una grande passione: «Sono stato il primo indiano in Italia, il primo ad arrivare fino all’Eccellenza. Ho sacrificato tanti weekend, ora che a 25 anni non posso fare il salto in serie D ho rifiutato il ruolo di assistente perché lo ritengo noioso: mi piace il contatto con i giocatori, relazionarmi con loro. Ma resto nell’Aia aiutando la sezione di Brescia: ho portato alcuni amici Singh, faccio il tutor e tengo i corsi per i nuovi arbitri. È un ambiente che mi piace e dove ho conosciuto tante persone».

Soprattutto, per Aman fare l’arbitro è stato come frequentare una scuola di vita: «Ricordo la prima partita: Sant’Eufemia-Voluntas dei Giovanissimi, finita 0-11. Non sapevo come comportarmi, perché venivo da un’altra cultura e non mi ero mai trovato a decidere in mezzo a così tanti italiani. Ma piano piano ho superato i miei limiti. Facendo l’arbitro ho imparato a comportarmi, a gestire le situazioni critiche, a tenere il self control».

Nonostante per un indiano, in un ambiente ancora chiuso, non sia sempre semplice: «Nelle prime partite io stesso avevo paura dell’approccio con i dirigenti. La gente non sapeva fossi indiano, ma dalla mia pelle lo poteva immaginare. Ci sono stati momenti brutti, ho ricevuto tanti insulti razzisti dal pubblico, specialmente nelle giovanili. Ma una volta sono stati gli stessi giocatori a rincuorarmi: gesti che non si dimenticano».

Così come fa piacere aver fatto ricredere i genitori: «Sono molto conservatori, tradizionalisti. All’inizio non mi hanno appoggiato: sono figlio unico e temevano che potesse succedermi qualcosa. Mia madre è ancora un po’ scettica, mio padre è contento perché vede la passione che ci metto. Ora mi piacerebbe fare qualcosa per il mio Paese: ho parlato con il capo degli arbitri indiano, ma non ci sono condizioni economiche. Per cui ho fatto delle proposte anche ad alcune società professionistiche, per sviluppare il calcio in India».

Fabio Tonesi

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