Cultura

Dylan, voce scorticata nella terra dorata dei crooner

Con il triplo album «Triplicate» l'artista rivisita alcuni capolavori del songwriting americano
Bob Dylan - © www.giornaledibrescia.it
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Non scherziamo. Un crooner non può venire da Duluth, Minnesota. Deve nascere a New York, Atlantic City. O, al massimo, a Las Vegas. A meno di non chiamarsi Bob Dylan.

Signore e signori, ecco l’ennesima trasformazione del camaleontico premio Nobel per la Letteratura, che - proseguendo la frequentazione di brani altrui - stavolta ha addirittura esagerato. Con «Triplicate» l’ex menestrello del folk ha pubblicato un disco triplo (e già questa è una scelta che definire fuori tempo è un pallido eufemismo), divertendosi a reinterpretare grandi classici dell’American Songbook (altra decisione presa infischiandosene delle mode), incamminandosi sulle orme di Frank Sinatra e Tony Bennet, reinterpretando brani di celeberrime colonne sonore e andando a disturbare il sonno placido di classicissimi del jazz.

Il risultato? Sorprendente, estraniante, velato di ironia. Perché Dylan è sempre Dylan. E, come lui stesso ha rivelato prima della pubblicazione del suo nuovo lavoro, aveva un fan d’eccezione, «the voice» in persona. «Frank Sinatra - ha spiegato l’artista - conosceva "The Times They Are a-Changin’" e "Blowin’ in The Wind’". Gli piaceva "Forever Young", me lo disse lui. Una sera, sulla sua terrazza, mi disse: "Tu e io abbiamo gli occhi azzurri e veniamo da lì. E indicava le stelle". Pensai che aveva ragione».

L’ascolto. Tre cd in un colpo solo. In quest’epoca di consumo rapido e famelico, dover disinnescare una bomba dylaniana fatta di trenta canzoni non è cosa semplice. Il primo disco parte «in the middle of the swing», con la voce impolverata di Dylan che arrochisce il mood delicato di «Semptember of my years» e «Once upon a time», poi cala il primo asso con «Stormy Weather».

Qui è inutile parlare di tecnica, intonazione (traballante, ma ricca di pathos) o arrangiamenti. Se cercate una «voce all’olio d’oliva», potete pure premere il tasto stop sul lettore cd. Bob ci mette qualcosa che fa la differenza. Forse il sussurro mentre prende fiato, o il modo di spezzare la frase. Ma l’emozione è reale, quasi accecante, anche a fronte della voce che ha il fruscio di un vecchio 78 giri, di note non sempre azzeccatissime, ma coinvolgenti al punto da far sognare un assolo di Bix Beiderbecke.

Il secondo disco suggella l’incontro con «As Time Goes By», da «Casablanca», un classico che più classico non si può. Ed anche in questo caso c’è solo da lasciarsi andare, senza alcun freno, viaggiando con Bob su strade sconosciute ai più. Nonostante arrangiamenti piuttosto standardizzati, «Triplicate» non annoia. E, nel terzo cd, regala un’altra perla con «These foolish things».

Trenta canzoni meritano numerosi ascolti, magari divertendosi a fare raffronti con altre versioni. Provate a sovrapporre l’«How deep is the ocean» di Chet Baker con quella di Dylan, e capirete come il paradiso si possa raggiungere percorrendo strade differenti, anche se sbagliate. C’è un’unica cosa, in definitiva, che si possa dire al Nobel che viene dal Minnesota: cantala ancora, Bob.

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