Cultura

Blur Il ritorno nel segno di un suono cangiante

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Il ritorno dei Blur non può che essere festeggiato. Un disco mancava dal 2003 («Think Tank»). Un album a formazione completa, ossia con Graham Coxon, dal 1999 («13»). Al netto di tutto il meglio che si può dire sulla band che si è inventata il brit pop, va sottolineato che ogni capitolo discografico - con questo «The Magic Whips» si sale a quota otto - si è sempre discostato dal precedente e, in generale, dai precedenti. Forse con la sola eccezione dell’accoppiata «Parklife»-«The Great Escape», con sonorità a tratti parallele. Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree sono passati dal baggy alla creazione del brit pop, dal lo-fi alle sperimentazioni elettroniche, fino alle contaminazioni etniche. Elementi, questi ultimi, che hanno fatto parte pure della carriera solista di Albarn.

In «The Magic whip» c’è un po’ di tutto. Non è un disco «facile», mancano i punti di riferimento, il suono è cangiante. Ma gli squarci di genialità ci sono. Eccome. «Lonesome Street» sembra una traccia dell’epoca di «Modern Life Is Rubbish», quando sfibrati da un tour negli Usa i Blur decisero che era tempo di fabbricare un suono e un immaginario che fossero british al 100%. «New World Towers» è l’anima cantautorale post-Blur di Albarn, da «The Bunting Song» del progetto The Good The Bad And The Queen fino alle rarefazioni minimal di «Everyday Robots». «Go Out» riannoda il filo dei Blur del self-titled del 1997, tra «I’m Just A Killer For Your Love» e la sbieca convalescenza di «Death Of A Party». La bizzarra e stropicciata «Ice Cream Man», pervasa da un loop sintetico fuori tempo, affascina subito, anche nel contrasto con la voce di Damon, ch’è dritta in faccia, quasi declamatoria.

«Thought I Was A Spaceman» sembra arrivare dal fondo dello zaino di Albarn. Il passo è quello di un battello in riserva sul Tamigi, fino ad una sorprendente scossa di adrenalina percussiva in cui dei Blur esce la classe intatta - se non migliorata negli anni - nel disegnare panorami sonori in cui nulla è in ordine, ma tutto è a posto. «I Broadcast» è probabilmente il pezzo che i fan apprezzeranno maggiormente. Riporta alla mente la baldanza dei tempi in cui la «Popscene» (hey-hey) era «alright» con delle chitarre che sono nipoti della «Moving On» datata 1997. Damon e Graham hanno affermato che in «The Magic Whip» hanno trovato il modo di chiedersi scusa a vicenda. La dolce «My Terracotta Heart», tra perdita dell’amicizia e cuori che si frantumano con poco, in questo senso è lo snodo centrale. «There Are Too Many Of Us» sorprende. Sembra un esercizio di stile su una progressione di accordi dalla risoluzione lacrimevole, ma poi si trasforma in una pista di decollo di cui non vedi la fine, le tortuosità raddrizzate dalla sezione ritmica. L’ascolti, la riascolti e senti che è la traccia in cui si cristallizza la magia del disco. La tensione viene spezzata da una «Ghost Ship» leggerina, tra funk e soul. «Pyongyang» è summa delle cangianti atmosfere che pervadono il disco, e cambia volto tra una strofa quasi wave e il lirismo dell’inciso. «Ong Ong» fa retromarcia e strofina con un ritornello gospel-soul un giro di chitarra che avrebbe potuto far parte del lotto di «Modern Life». «Mirrorball» chiude il caleidoscopio con un’inedita nota western. Stop: fine delle tracce. Si deve tornare a pagina uno. Il disco cambierà volto di ascolto in ascolto.

Daniele Ardenghi

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