GdB & Futura

Per il lavoro si aprono praterie ma servono nuove competenze

Data scientist, service eng. 3D designer, social media manager. E mancano ingegneri.
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Secondo Marina Pizzi, delegata del Rettore alla ricerca, l’Università di Brescia è la prima in Italia quanto ad occupabilità (dati del ministero). Significa che chi si laurea qui trova, prima che altrove, un posto di lavoro: siamo 10 punti percentuali sopra la Lombardia e 20 oltre la media nazionale. Se poi parliamo in particolare di Ingegneria siamo alla praticamente piena occupabilità (98%), il che significa che c’è una gran fame di neolaureati in Ingegneria.

Un po’ così è sempre stato.

Oggi, ragionevolmente, questa fame di ingegneri va ascritta al gran movimento che si agita sotto il sole dell’Industria 4.0, alle necessità di nuove figure professionali che le aziende cercano; si assiste, per dirla in termini più forbiti, «ad una forte discontinuità nel fabbisogno di competenze da parte delle imprese». In altre parole ancora: c’è un gran bisogno di personale, ma capace di fare cose nuove. Per chi pensa che il lavoro sia morto è una lettura interessante.

A confronto. Fra chi insegna, e quindi prepara neolaureati, e le imprese c’è stato un interessante confronto la settimana scorsa. Lo ha organizzato il Laboratorio Rise (Research & Innovation for Smart Enterprise) di Ingegneria Meccanica ed Industriale della nostra università, presenti Marco Perona (docente e responsabile del Rise), Andrea Bacchetti e Nicola Saccani (ricercatori al Rise), il professor Franco Docchio e la ricordata Marina Pizzi. Tutti a confronto con una ventina di rappresentanti di aziende bresciane (e non solo), grandi e piccole con una qualche prevalenza di gruppi strutturati. Una bello spaccato di imprenditoria: meccanica, siderurgia, grande distribuzione, servizi e software.

Più di tutto. Il tema della mattinata era un po’ questo: diteci un po’, signore aziende, che ne pensate del nostro lavoro, come insegniamo, che impressione e risultati avete quando assumete un nostro laureato, che si dovrebbe fare di più e/o meglio alla luce, ovviamente, del Nuovo Mondo che prefigura un mercato dove, sempre più ci si sposta dal prodotto al cliente, che vuole più qualità, più reattività, più flessibilità e la contemporanea riduzione dei costi. Allora, che ci dite?

Una ricerca per cento. All'appuntamento, il Rise si è preparato con una ricerca fatta in un centinaio di aziende il cui risultato finale in qualche modo sorprende: il limite allo sviluppo, un handicap alla introduzione di nuove tecnologie è rappresentato - attenzione - «dalla mancanza di competenze». In fabbrica, da una parte devono cambiare le competenze di chi ci lavora, ma bisogna ingaggiare anche nuove figure: service engineer, data scientist, reputation manager, 3D designer e l’elenco di questi mestieri a prima vista improbabili potrebbe continuare.

«Rivampare» chi lavora. D’accordo quindi su nuove figure professionali, ma le aziende chiedono all’università se non sia possibile anche fare qualcosa per chi già in fabbrica lavora, per chi ha esperienze ma non le nuove competenze. L’università potrebbe fare qualcosa? Seconda richiesta: alternanza scuola-lavoro. Bella cosa, ma da affinare. Esempio: perchè non terminare le sessioni d’esame a maggio così da lasciare due mesi pieni (giugno-luglio) per gli studenti in azienda? Terza richiesta: serve più inglese e più attitudine al lavoro in team. Sull’inglese ci si capisce subito, sul lavoro in team vale la pena qualche riga ancora.
Le aziende vorrebbero, per così dire, degli ingegneri più simpatici, per meglio dire: li vorrebbe più empatici, quindi più in grado di entrare in sintonia non solo con i colleghi, ma anche con i clienti, perchè questo è soprattutto Industria 4.0: dal prodotto ci si sposta al cliente. E se chi va a parlare col cliente è più "simpatico", diciamo così, l’azienda ci guadagna. Con la speranza che l’assetsimpatia frutti pure qualcosa al nostro neolaureato...

 

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