Farmaci biologici per ridurre il dolore e le fratture

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Vincere il dolore, anche in presenza di malattia. Questo l’impegno della ricerca in oncologia, mirata a mantenere una buona qualità di vita nelle persone che sono affette da hanno tumori ossei metastatici. Un impegno mirato allo studio delle cellule che compongono l’osso e al loro comportamento nei confronti delle cellule malate. Un tema di grande fascino, del quale abbiamo parlato con il professor Alfredo Berruti, direttore dell’Oncologia medica dell’Ospedale Civile di Brescia che, sull’argomento, è intervenuto al Congresso «Skeletal Endocrinology» che si è svolto a Medicina.

n Fratture e dolore spaventano le persone, soprattutto se sono ammalate di cancro. Soprattutto oggi che, grazie ai miglioramenti terapeutici, molti convivono anche per anni con una neoplasia in stadio metastatico. Mantenendo una discreta qualità di vita anche se le metastasi hanno colpito le ossa. Risultati soddisfacenti si ottengono con la somministrazione di bisfosfonati, classe di farmaci biologici in grado di impedire il riassorbimento osseo. I bisfosfonati, dunque, inibiscono l’attività degli osteoclasti e hanno dimostrato, pur in presenza di cellule tumorali, la capacità di impedire attivazione ed eccessivo rimaneggiamento dell’osso. Le metastasi ossee hanno un impatto sulla qualità di vita del paziente molto forte. Non esistono dati certi sul numero di coloro che ogni anno entrano nella fase avanzata della malattia, ma di certo si sa che circa il 5% del totale della popolazione italiana ha avuto una diagnosi di tumore. E le metastasi, soprattutto se colpiscono le ossa, presentano un conto molto salato: rischio di fratture spontanee con bassissima tendenza alla guarigione, necessità di interventi ortopedici, episodi di ipercalcemia legati ad un eccesso di calcio libero nel sangue che causa disturbi al sistema nervoso centrale, problemi cardiologici e allo stato di coscienza. Prima dell’avvento dei bisfosfonati, il trattamento era di tipo puramente sintomatico: analgesici per il controllo del dolore, idratazione per diluire l’eccesso di calcio, diuretici, radioterapia per irradiare segmenti scheletrici particolarmente colpiti, ed interventi di chirurgia ortopedica per cercare di correggere le fratture patologiche indotte dalle metastasi ossee. Interventi spesso poco efficaci, sicuramente invasivi e, comunque, non ripetibili.

Ma cosa accade alle ossa in caso di metastasi, ovvero quando le cellule maligne lasciano il tumore d’origine per colonizzare altri organi, riprodursi e formare altri tumori? Il quadro di rarefazione ossea, che può giungere alla frattura legata alla crescita tumorale, è dovuto al fatto che le cellule tumorali producono sostanze che stimolano gli osteoclasti, normali cellule della struttura ossea la cui attività è quella di digerire e rimodellare l’osso. È come se le cellule, gli osteoclasti appunto, stimolate da quelle tumorali, impazzissero ed iniziassero a distruggere l’osso, funzionando dunque troppo. In modo figurato, si può pensare ad un pesce piranha che inizia a rosicchiare l’osso senza sosta, fino alla sua distruzione. La terapia farmacologica con i bisfosfonati inibisce il funzionamento degli osteoclasti, con l’obiettivo di ridurre il dolore e prevenire le complicanze scheletriche, ovvero colpire il risultato di un effetto causato dalle cellule normali impazzite. Già questo è un discreto passo avanti, perché la terapia riduce del 25-30% il rischio di fratture, oltre a controllare il dolore. Ma l’attivazione degli osteoclasti da parte delle cellule tumorali distrugge anche la matrice ossea e libera fattori di crescita che rendono favorevole anche la crescita del tumore.

I bisfosfonati bloccano la progressione della malattia a livello osseo e fanno sì che i fattori di crescita delle cellule tumorali siano meno disponibili nel microambiente osseo, con un potenziale effetto antineoplastico.

Il quadro descritto è il presente. L’ipotesi per il futuro è che, in realtà, la disseminazione delle cellule tumorali all’interno delle ossa sia molto più precoce di quanto si immagini. Ovvero, avvenga molto prima dei suoi effetti, ovvero di dolore e fratture. Un’ipotesi forte, che riguarda il comportamento della malattia metastatica, che giungerebbe al midollo osseo per collocarsi in diverse nicchie all’interno delle quali resta quiescente per un periodo che può andare da pochi mesi a molti anni.

L’attività all’interno della nicchia è regolata dall’osteoblasta, cellula che origina da cellule osteoprogenitrici, dette preosteoblasti, e la sua funzione più conosciuta è quella di produrre la matrice organica del tessuto osseo stesso. All’osteoblasta vengono attribuite altre funzioni, oltre a quelle di modulatore del metabolismo osseo, fra cui quella di regista delle nicchie premetastatiche e delle cellule staminali destinate a ricostituire le cellule del sangue. L’attività dell’osteoblasta è modulata dalla situazione del microambiente. Più l’ambiente è attivo, come abbiamo visto, più aumentano le probabilità che le cellule malate non restino più quiescenti. Nel concetto di nicchia, le cellule non proliferano e l’osso, in realtà, diventa deposito di cellule neoplastiche che possono colonizzare altri tessuti. La sfida, oggi, è quella di comprendere i meccanismi che permettono l’attivazione della cellula tumorale, dopo che è rimasta quiescente nella nicchia anche per lunghi periodi. Se l’ipotesi è vera, si deve ricorrere a terapie che inibiscano la loro progressione ed eviatre che colonizzino non solo l’osso, ma anche altri organi del corpo umano. Il nuovo ruolo dei bisfosfonati potrebbe essere proprio questo: inibire il metabolismo osseo per impedire la stimolazione della nicchia premetastatica da parte dell’osteoblasta e, quindi, prolungare il periodo di quiescenza delle cellule tumorali eventualmente disseminate nel midollo osseo.

Anna Della Moretta

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