Cucina

«Non fateci raccogliere più uva»

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«Questi sono matti, non vogliono fare soldi». È probabilmente questo il commento che viene in mente a molti vignaioli, soprattutto del vicino Veneto (da noi la sensibilità è diversa) dove i produttori di Prosecco sfondano ogni anno allegramente le soglie di produzione massima fissate molto generosamente (180 quintali ettaro) dal disciplinare.

Ma i «matti» ci sono e sono i Vignaioli del Trentino, una associazione di piccoli produttori, molto portati alla qualità e soprattutto alla salvaguardia della loro terra (hanno tutti aderito alla Federazione Vignaioli Indipendenti). Quei piccoli produttori hanno avviato una battaglia (che probabilmente perderanno) per impedire al Consorzio vini del Trentino di innalzare la quantità di uva di Pinot Grigio raccoglibile per ettaro di vigneto da 140 a 150 quintali. Dicono che, così facendo, non si fa altro che banalizzare il vino, rinunciare alla qualità e massacrare l’immagine (e il prezzo) della Doc Trentino che, peraltro, è già una delle più deboli d’Italia.

«Ma come? - dice il presidente dei Vignaioli Lorenzo Cesconi - abbiamo un territorio di montagna che comprende le Dolomiti patrimonio dell’umanità e ci mettiamo a rincorrere le logiche mercantili della pianura veneta, che ha scelto da tempo la strada della massima meccanizzazione e del prezzo più basso possibile. Il nostro esempio dovrebbe essere l’Alto Adige che fa vini eccellenti e se li fa pagare cari».

Cesconi, che è anche enologo e produttore di ottimi vini sulle colline di Pressano a Nord di Trento, dice che il Pinot Grigio non sopporta, per sue caratteristiche, rese così alte, se non a prezzo di una caduta della qualità e di una maggiore facilità di contraffazione del prodotto.

«Noi Vignaioli siamo convinti - scandisce il presidente - che la competitività del vino trentino deve fondarsi sulla qualità, territorialità e riconoscibilità».

Il giovane presidente e il manipolo di vignaioli, in realtà mette i piedi in un vespaio, dove il nodo evidente del Pinot Grigio è solo un corno del problema.

Il tema delle rese per ettaro (cioè dell’uva che al massimo si può raccogliere in un ettaro di vigna per aspirare al bollino della Doc) è dibattuto e controverso. Di per se è solo un limite massimo. Produttori con maggiori ambizioni possono abbassarlo per avere vini migliori, ma il limite può anche essere superato del 20% a condizione (piuttosto irrisa) di farlo nelle annate migliori.

Il tetto insomma garantisce una qualità minima perché il vino sia Doc. Liberi di fare meglio, non peggio.

In realtà si tratta di una unità di misura che ha molti limiti: è un conto misurare i quintali in un vigneto con 2.500 piante e un altro conto se le piante sono 10.000 l’ettaro. C’è poi da dire che il tetto viene fissato non sulla base di scelte agronomiche (valutando la varietà di vitigno e la natura dei terreni), ma in base a scelte commerciali. Nel nostro caso il boom di domanda di Pinot Grigio, che è tutta all’estero, stuzzica la voglia di produrne di più. Ma, avverte chi protesta, così si deprime il prezzo.

Ci sono varietà di uva che prediligono rese alte. Il Muller Tourgau preferisce raccolti oltre 100 quintali ettaro, il rigogliosissimo Prosecco predilige raccolti abbondanti, in generale i vini destinati a base spumante amano il raccolto oltre 100 quintali l’ettaro, ma provate a produrre tanto Nebbiolo così ed avrete una qualità davvero drammatica (il Barolo infatti limita il raccolto a 80 quintali ettaro). Appare migliore il metodo di limitare la quantità di uva rivendicabile alla Doc (come fa l’Amarone dove l’uva che non va all’appassimento diventa normale Valpolicella senza spogliare troppo la vite). Meglio ancora sarebbe limitare il vino producibile.

Un metodo «ufficioso» in uso in Franciacorta (dove il tetto di 95 quintali è davvero basso) è quello di produrre un po’ di più, per poi ridurre la resa di uva in pressa per rientrare nei limiti fissati dal Consorzio (che ha l’obiettivo di allineare la produzione alle quantità vendute sul mercato). La Champagne che viaggiava su rese alte (oltre 140 quintali), da due anni si è allineata su 105 quintali ettaro, un limite che ha tenuto nel disgraziato 2014, ma presto rivedrà al rialzo. In generale però va detto che meno uva si raccoglie (con buon senso), migliore sarà il vino. Infatti in Alto Adige il Pinot Grigio ha un tetto di 130 quintali. Per confronto va detto che le zone bresciane rispettano tutte limiti più qualitativi. Il massimo consentito è in Lugana con 125 quintali ettaro, che scendono a 110 per le riserve. Gli altri sono tutti più bassi.

Il fenomeno Pinot Grigio è poco percettibile in Italia perché il prodotto va tutto all’estero. Per molte zone è una pacchia, per altre è un flagello. Per essere nei supermercati Usa a 8 euro, racconta Cesconi, si deve vendere a 2 euro il litro. Una cifra che va bene per la pianura meccanizzabile, male per la montagna. Ed infatti i Friulani del Collio (che è collinoso), la pensano come i Vignaioli trentini, quelli delle Grave la pensano come i veneti.

L’altro corno del problema è il minimo storico dell’immagine della doc Trentino. Va detto che non parliamo del Trentodoc, che è lo spumante e che vende benissimo i suoi 8 milioni di bottiglie annue. Anche il Trentodoc spumante consente rese da 150 quintali ettaro, buoni per le grandi cooperative, ma non è senza significato che la grande Ferrari di Trento si «autolimita» a cento quintali. I piccoli poi non superano quasi mai gli 80.

La Doc Trentino viaggia invece sui 140 quintali per tutte le tipologie (che in montagna sono tanti) con un massimo per il Teroldego consentito fino a 180 quintali.

Se sia una buona politica non tocca a noi dirlo. Va notato però che la Doc è passata da una produzione di 813 mila ettolitri del 2009 a 329 mila ettolitri nel 2013. E di questi solo 180 mila ettolitri sono rivendicati alla Doc. Che fine fanno gli altri. Cesconi dice che loro «scappano» nella denominazione Vigneti delle Dolomti Igt. Meglio una Igt targata Unseco che una Doc senza immagine.

Come dire 3 mila ettari di vite di montagna sono sprecati contro i 500 ettari dell’Alto Adige che sono una miniera d’oro.

Gianmichele Portieri

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