Dove le cose raccontano la tragedia dell'Istria

A Trieste c’è una città fantasma, popolata dalle masserizie che gli esuli portarono via in fuga da Tito e mai più recuperate.
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«In questo paese vi sono colline dolci, digradanti con aiuole fiorite svariatamente. Le strade sono fiancheggiate da una processione di pioppi giganteschi e di salici. Piccoli fiumicelli scorrono dolcemente fra il verde della valle e si riuniscono tutti all'Arno (…)». Il foglio invecchiato e infragilito dalla consunzione reca la data del 4 maggio 1946, e custodisce il compito, gravoso, affibbiato all'Alunno Ignoto: fare il riassunto di (testuale) «Il mio dolce paese di Toscana», di Giosuè Carducci.

Povero ragazzo. Ore e ore sui libri per interpretare le struggenti e certo non telegrafiche poesie del massimo cantore della Nazione unificata. Però, almeno, quelle «colline dolci» lo avranno fatto anche sognare. Vista da una qualsiasi cittadina dell'Istria redenta dopo il 1918, la Madre Italia doveva essere per forza bella, serena, rigogliosa. Un paradiso. Non certo la terra matrigna, la patria ostile, che il giovinetto troverà di lì a pochi mesi, nel terribile febbraio 1947 dell'esodo biblico da Pola a bordo della motonave «Toscana». O forse negli anni successivi, fino al 1960 e oltre, già adulto e consapevole, quando dall'Istria «rossa» si fuggiva in silenzio, a piccoli esodi frazionati, su misura, dopo aver «provato» e non solo «immaginato» l'esperienza amara del comunismo nazionalista di Tito.

Si scappava per finire a Trieste, a Udine, a Roma, a Brindisi, o anche a Brescia, Bergamo, Torino. Anche in Canada e Australia. Ovunque fosse possibile sentirsi «italiani» senza l'etichetta perfida del «fascista» per antonomasia. Una colpa in culla da scontare con la morte civile e la mortificazione sociale.

Se cercavo, nel ventre polveroso del Magazzino 18 di Trieste, l'ago non di tutta, ma di una (basta di una per capire le altre) identità italiana perduta, l’ho trovato pescando con cautela nel più grande e ormai unico pagliaio grottesco e disordinato rimasto della memoria oggettuale di un popolo travolto dalla lotteria della Storia. Solo che qui gli oggetti parlano, sono una presenza solo apparentemente anonima e inanimata. Squarciano il silenzio del tempo, che li ha insieme conservati e aggrediti: credenze, armadi, divani, sedie (centinaia di sedie), macchine da cucire, lavabi, mestoli, piatti, tazze, martelli, aratri, forconi (quelli veri, che i dignitosi contadini istriani, italiani e slavi, impugnavano solo per fare fieno), fotografie, libri, diari. Il tempo li ha tenuti in vita tarlati e ingialliti, in cattività, perché qualcuno un giorno li lasciasse urlare la loro orfana disperazione.

Appartengono, appartenevano, agli istriani di Pola, Rovigno, Parenzo, Buie, Cittanova, Pirano, Capodistria. Ai fiumani e agli zaratini. Tanti. Duecento, trecento, i «350 mila» della contabilità ufficiale dell'esodo, per decenni condannati al confino morale del silenzio. O, peggio, silenziati dalla cultura ufficiale come nostalgici del fascismo. Come cavallette uscite da un passato buio e assassino, da loro stessi provocato e financo difeso, sosteneva la vulgata della guerra fredda. Altro che «subìto»! E così pagarono per tutti, fascisti veri e antifascisti presunti (oppure il contrario, il concetto non cambia) il conto di una guerra perduta. Le masserizie sono restate qui al primo approdo, o sono state rimandate indietro dalle prefetture della Penisola, perché nessuno le ha più reclamate.

Al porto vecchio di Trieste, in questo monumentale antenato in mattoni degli odierni hub, costruito dall'Impero Austro-Ungarico, calco le orme che un pioniere coraggioso, di nome Simone Cristicchi, ha impresso come un Cristoforo Colombo dell'arte, in maniera indelebile nel suo capolavoro «Magazzino 18». Sono un privilegiato, lo so. Il Magazzino, curato con passione e mille difficoltà finanziarie e burocratiche, dall'Irci, l'istituto regionale per la cultura istriana, mi è stato aperto eccezionalmente dalla presidente Chiara Vigini e dall'infaticabile direttore Piero Delbello, per poter vedere in un istant tour, questo tesoro di civiltà, in odore di macero, se Cristicchi non fosse calato qui come un angelo redentore. Mi guida una figura straordinaria di esule, Livio Dorigo, che a 17 anni lasciò Pola sul «Toscana» dopo aver vissuto il travaglio di una città sospesa fra Italia e Jugoslavia, in attesa del verdetto di Parigi, il 10 febbraio 1947. Oggi, a quasi 84 anni, da presidente del Circolo Istria, si batte ancora con foga mazziniana per costruire ponti, abbattere muri.

Crede nel «dialogo fra italiani, sloveni e croati», ma soprattutto nel «recupero del rapporto con la nostra terra, con i rimasti», perché «i figli non paghino per le scelte o i destini dei padri. Il futuro è nella pace e nella convivenza». Guardo e fotografo tutto. Ma più che inventariare oggetti di vita quotidiana, conta capire che questi sono simboli, sono soggetti vicari, portavoce in legno, ceramica e ferro, dei loro proprietari dispersi in una diaspora che ha «cancellato l'italianità adriatica» dal vecchio confine orientale, come scrive lo storico triestino Raoul Pupo.

Spoliati di ogni bene. Ma non del bene supremo: la dignità. Ancora pochi giorni e questo tesoro inestimabile, dopo il 10 febbraio, verrà aperto per le prime visite guidate. Un successo per l'Irci. Per Livio Dorigo. Per le associazioni degli esuli. Per i sopravvissuti all'esodo e per i loro figli e nipoti. Per questa nazione che, finalmente, settant'anni dopo, scopre di avere concentrato, a sua stessa insaputa, in duemila metri quadrati uno spaccato incredibile della civiltà giuliano-dalmata. Di più. Della vita materiale nell’ Italia degli anni Quaranta. Quelli che cambiarono radicalmente la storia del mondo .

Valerio Di Donato

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