A Brescia i postumi di Mani Pulite

Poche indagini su vicende bresciane, ma tutte le inchieste sui magistrati milanesi
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«Non vogliamo diventare i monatti di Mani Pulite!». La frase pronunciata nell’estate 1995 dal sostituto procuratore di Brescia Antonio Chiappani si rivelò in parte profetica. Alla Procura della nostra città toccò il compito se non proprio di «portar via i cadaveri» almeno di aprire gli armadi alla ricerca di scheletri legati all’inchiesta più famosa della nostra storia repubblicana, quella per cui si coniarono neologismi («Tangentopoli» il più riuscito), che fece a pezzi i partiti tradizionali e mise fine alla prima Repubblica.
Ma cosa era accaduto per giustificare il timore del magistrato bresciano? Da due anni, dal famoso arresto a Milano del socialista Mario Chiesa, uno tsunami giudiziario si era abbattuto su tutta Italia.
 
Dal capoluogo lombardo, dall’inchiesta Mani Pulite (che era già da sola un enorme «mostro») erano nate innumerevoli derivazioni, grandi e piccole, e la marea aveva travolto persone e istituzioni, un po’ ovunque.
A Brescia, per la verità, Tangentopoli era partita un po’ lentamente: il caso Moroni, che si concluse tragicamente nella nostra città, era legato all’inchiesta milanese e c’era una sola indagine tutta bresciana, quella sulla tangente pagata per il nuovo Palagiustizia. È il ruolo istituzionale degli uffici giudiziari della Corte d’appello di Brescia, competenti per i procedimenti che coinvolgono magistrati milanesi, che aveva portato la nostra città al centro dell’attenzione mediatica.
 
Il primo effetto era stato il caso Curtò che nel settembre 1993 aprì ufficialmente il capitolo «toghe pulite». Nell’ambito dell’inchiesta Enimont, sulla «madre di tutte le tangenti» (oltre 500 miliardi di lire pagati per la scalata al polo chimico pubblico da Raoul Gardini, suicidatosi il 23 luglio ’93), emerse che Diego Curtò, presidente della prima sezione civile del Tribunale di Milano, aveva ricevuto 400 milioni di lire per nominare l’avvocato Vincenzo Palladino custode giudiziario delle azioni Enimont.
 
Le indagini si spostarono a Brescia e i pm Guglielmo Ascione e Francesco Maddalo chiesero e ottennero l’arresto di Curtò. Mentre emergevano conferme delle operazioni finanziarie occulte del magistrato, Curtò dichiarò pateticamente di aver buttato quel denaro in un cassonetto, ossessionato dal senso di colpa.
Il caso Curtò portò a Brescia anche l’inchiesta Enimont, ma solo un anno dopo, nel novembre 1994, dopo che il pm Antonio Di Pietro, conclusa la requisitoria al processo Cusani-Enimont, aveva dato le dimissioni dalla magistratura. Un mese prima la Corte di Cassazione aveva spostato a Brescia il processo Cerciello, che coinvolgeva gran parte della Guardia di Finanza di Milano e alcuni imprenditori e che si concluderà con numerose condanne definitive.
 
In questa situazione nei primi giorni d’estate del 1995 nacque il «caso Di Pietro». L’accusa nel processo Cerciello venne affidata alla coppia di pm Fabio Salamone e Silvio Bonfigli ed a loro arrivarono denunce anonime e documenti che gettavano una luce inquietante sulle dimissioni di Di Pietro.
 
I pm si convinsero che il «magistrato più amato dagli italiani» si fosse dimesso perché ricattato, in particolare dall’entourage di Silvio Berlusconi da poco «sceso» in politica. L’indagine si concentrò sia sui ricattatori che sul ricattato, su Di Pietro, che finì nel registro degli indagati per corruzione. Di Pietro alla fine verrà prosciolto dai Gip Roberto Spanò e Anna Di Martino e scenderà a sua volta in politica, mentre si farà un solo processo, quello per concussione contro Paolo Berlusconi (il fratello), Sergio Cusani e altri, accusati di aver ricattato il pm di Mani Pulite. Saranno tutti assolti dopo la clamorosa estromissione dal processo di Salamone e Bonfigli, perché emerse la circostanza che Di Pietro aveva indagato e denunciato il fratello di Salamone.
 
a. pel.

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