Cultura

Robin Williams, morte di un divo sfocato

Amatissimo, capace di far ridere e commuovere, Robin Williams si è suicidato a 63 anni.
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Un divo fuori fuoco, che non riesce a lasciare il segno appieno sulla pellicola perché qualcosa, nella sua mente, lo blocca. Così Woody Allen interpretava Robin Williams in Harry a pezzi, nel 1997, cucendogli addosso un ruolo indimenticabile con una trovata che ancora resta tra le migliori del regista newyorkese. E' un'immagine di certo parziale dell'attore, ma ora che Williams è morto suicida a 63 anni, dopo una grave depressione, è la prima che viene alla mente.

La sua  è stata una carriera divisa tra i ruoli brillanti e leggeri, da Popeye di Robert Altman (1980) a Una notte al museo 3 di Shawn Levy, (in uscita a inizio 2015 in Italia), e le parti più intense che ne hanno valorizzato le grandi capacità espressive: Good Morning Vietnam di Barry Levinson (1987, candidato all'Oscar come migliore attore protagonista); L'attimo fuggente di Peter Weir (1989, nuova candidatura all'Oscar); Le avventure del Barone di Munchausen di Terry Gilliam (1988); La leggenda del re pescatore, sempre di Gilliam (1991, nuova candidatura all'oscar); Will Hunting - Genio ribelle  (1997, stavolta arriva il premio Oscar).

Quasi quarant'anni sul grande schermo, uno sguardo buono che ti mette a tuo agio, un sorriso che sa dire anche tranquillo, mi prenderò cura di te, una mimica comica che sapeva sempre accendere la festa. Nasce facendo ridere, l'attore Williams, dal cabaret a Mork & Mindy, tra le serie televisive di culto per teledipendenti di prima generazione (1978-1982), nata come spin off di Happy Days. Sembra la solita vecchia storia del peso del successo, e forse un po' lo è, ma la fama crescente è stata accompagnata da abuso di alcol e droghe. E così si ritrova anche in una scena drammaticamente vera, con pochi spettatori, in grado di segnare un'epoca: la morte per overdose di John Belushi. Per Robin Williams è una sorta di campanello d'allarme, inizia a ripulirsi, racconta all'epoca, ma non si libererà mai del tutto dai suoi guai. Giusto poche settimane fa aveva annunciato l'inizio di un programma terapeutico per lasciarsi alle spalle la bottiglia. Soffriva di depressione.

Le televisioni in questi giorni riproporranno i suoi film, si spera, e ci ritroveremo a rimpiangere un altro talento puro, come di recente è accaduto con Philip Seymour Hoffman. Ognuno ritroverà il proprio Robin Williams nell'interpretazione che peferisce: Peter Pan in Hook (Steven Spielberg, 1991); il papà-governante di Mrs. Doubtfire (Chris Columbus, 1993); il cattivo psicopatico di Insomnia (Christopher Nolan, 2002). O ancora Jack (1996, Francis Ford Coppola) e il candidato inaspettato alla Casa Bianca ne L'uomo dell'anno, di Barry Levinson, in cui regge da solo un film deboluccio.

Messi tutti in fila, i suoi film raccontano di una vicenda artistica ricca, trascorsa nella parte alta di Hollywood, senza rinnegarne i compromessi (il micidiale Patch Adams, al top delle parti lacrimevoli a cui si è prestato). Con quella faccia, quella pelle che diventava rossa nonostante il trucco, quelle improvvise timidezze, quelle esplosioni di ilarità, quella bocca capace di ogni smorfia. Robin Williams è andato fuori fuoco, come in Harry a pezzi, fino a scomparire del tutto. Ma il segno sulle pellicole l'ha lasciato eccome.

 

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