Protesi di ginocchio: il «metodo» bresciano che piace agli Usa

È su questo trattamento che l’ortopedico Giacomo Stefani, ha tenuto una lezione all’Università di Stanford, in California
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La percentuale di durata di una protesi di ginocchio è moto alta e si attesta sul 90% a vent’anni dall’intervento chirurgico. In alcuni casi - meno del 10% del totale - è però necessario operare di nuovo a poca distanza dal primo intervento. Si parla, in questo caso, di «revisione» della protesi. È su questo trattamento che l’ortopedico Giacomo Stefani, primario all’Istituto clinico «Città di Brescia», ha tenuto nei giorni scorsi una lezione magistrale davanti ai professori del Dipartimento di Ortopedia dell’Università di Stanford, poco distante da San Francisco in California. Tra i «banchi», anche l’attuale presidente della Società americana di Ortopedia.

Perché tanto interesse? Perché l’ortopedico bresciano - che ha, al suo attivo, oltre trecento protesi di ginocchio l’anno, con una media di trenta revisioni - ha ideato un metodo differente rispetto all’approccio tradizionale di revisione della protesi di ginocchio che si rende necessario dopo complicanze precoci o tardive seguite all’intervento chirurgico. 

«Nella revisione, si posiziona una protesi diversa di quella usata nel primo intervento, dotata di due allungamenti, detti steli, da inserire sia nel femore sia nella tibia - spiega Stefani -. All’inizio si utilizzava uno stelo semplice, poi lo si è sostituito con uno dotato di un allargamento alla base, sotto e sopra il ginocchio, per renderlo più stabile. 

Da qui l’intuizione: perché, nei casi di revisione, non si utilizza una protesi allargata, eliminando del tutto gli steli? Abbiamo iniziato questa metodica una decina di anni fa, dopo accurati studi di biomeccanica, ed abbiamo visto che, in questo modo, si diminuiscono i tempi chirurgici e l’invasività della protesi, con notevoli vantaggi per il paziente, oltre a diminuire anche i costi dell’intero intervento».

Che aggiunge: «In alcuni centri italiani, ma anche europei, ci sono colleghi che adottano questa metodica. Per ora, è affidabile anche se proseguiamo con i piedi di piombo ed abbiamo raccolto tutti i dati per una pubblicazione scientifica che uscirà il prossimo settembre». 
Il numero delle persone «candidate» alla protesi di ginocchio aumenta in modo proporzionale al progressivo allungamento della durata della vita. 
«Su 296 protesi inserite lo scorso anno - aggiunge Stefani - solo 41 sono state posizionate a persone con meno di sessant’anni, in genere dopo un trauma. Negli altri casi, la scelta viene adottata quando non ci sono alternative, chiarendo che la protesi migliora la qualità della vita di una persona che ha forti dolori e limitazioni, ma è evidente che non ridona ad un settantenne le potenzialità di un ginocchio di una persona giovane».
Perché serve la protesi. Traumi a parte, le cause più comuni che richiedono l’intervento di protesi al ginocchio, sono: le osteoartrosi, l’artrite teumatoide e l’emofilia.
Le prime sono le artrosi più comuni, caratterizzate dal consumo (per sfregamento continuo) della cartilagine articolare. 

Per questo motivo, sono dette anche «artrosi da usura». Il paziente, nella stragrande maggioranza dei casi anziano, avverte dolore e difficoltà motorie.
L’artrite reumatoide, invece, è una malattia autoimmune, in cui il sistema immunitario non difende l’organismo dalle infezioni. A pagarne le conseguenze sono le articolazioni che diventano rigide, dolorose e gonfie. Poi, l’emofilia. Le continue lesioni sanguinolente indeboliscono le articolazioni che si irrigidiscono e diventano dolenti. I bersagli più colpiti sono le ginocchia e le caviglie.

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