Cultura

Il Gaì: quell’esperanto dei pastori «fatto di frasi in codice»

Nuova edizione, ampliata, dell’Antologia curata dallo storico camuno Giacomo Goldaniga
Il Gaì era parlato dai pastori di diverse nazionalità - Foto © www.giornaledibrescia.it
Il Gaì era parlato dai pastori di diverse nazionalità - Foto © www.giornaledibrescia.it
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«I pastori generalmente parlavano poco, solo l’indispensabile per farsi capire tra di loro. E comunicavano ancora di meno con il mondo esterno. Tuttavia, quando si accorgevano che alcune parole erano divenute troppo comuni, le sostituivano, a volte persino si radunavano per mutare di comune accordo il loro gergo».

È uscita la IV edizione di «Antologia Gaì delle Valli Bergamasche e della Valle Camonica» di Giacomo Goldaniga, storico di Piamborno, che da 25 anni ricerca e studia il gergo Gaì, il codice parlato, ormai quasi scomparso, comune tra i pastori di tutto l’arco alpino, ma anche della Svizzera, della bassa Savoia e del Südtirol. Per dirla in Gaì, appunto, la «slacadùra di tacolér» (la lingua dei pastori).

Il volume (20 euro) è in distribuzione da questa settimana nelle principali edicole e librerie della Valle Camonica e Alto Sebino; per ordinarne copie ci si può rivolgere anche a Valgrigna Edizioni (tel. 0364.360966).

Oltre all’ampliamento del dizionario con nuovi lemmi, la vera novità è la presenza di un frasario. Sussiste, infatti, una questione fondamentale sul linguaggio Gaì.

«Tutte le pubblicazioni sul gergo dei pastori, a partire dalla raccolta di Antonio Tiraboschi del 1864, propongono un dizionario di centinaia di termini Gaì - spiega l’autore -. Tuttavia, credo che questi non comunicassero parole, ma frasi».

Il pastore, per natura solitario e taciturno, usava ammiccamenti, cenni col capo, fischi e movimenti del bastone, ma quando parlava lo faceva attraverso frasi fatte, stringate, metafore e paragoni intercalati da silenzi. «Quindi la vera letteratura Gaì è il frasario.

Frasi che per lo più riguardavano il lavoro come "trapelà col timignol" o "balcunà la tacola sciaìna", ovvero "andare col gregge" e "osservare la pecora gravida"».

 

Il libro contiene più di duecento frasi e oltre duemila lemmi, ereditati in parte dai lavori precedenti e da articoli pubblicati su riviste specializzate di linguistica e glottologia, in parte tramite la ricerca sul campo. «Ho intervistato un pastore di Lozio e due della Val Saviore che ancora lo capiscono e ricordano parole. Poi ho incontrato uno studioso di Vall’Alta, in provincia di Bergamo, che scrive racconti nella lingua dei pastori, presenti nel libro, e mi ha portato da un anziano mestierante che mi ha raccontato tante storie: da lì ho ricostruito l’attività pastorizia di un tempo».

Ma come mai il Gaì sta scomparendo? «La pastorizia si è ridotta tantissimo e stanno subentrando le nuove generazioni che spesso sono di altre nazionalità. Oggigiorno i giovani che fanno questo lavoro sono pochi e anche i proprietari dei greggi non fanno più i pastori ma hanno dei dipendenti». A fare da contraltare alla decadenza del Gaì come gergo parlato tra montanari, un interesse crescente sta coinvolgendo sempre più curiosi. «Sta diventando un fatto di folklore, alla gente piace, c’è interesse. Anche il lockdown ha contribuito a riaccendere la passione per le nostre radici: è stata l’occasione per prendere coscienza della nostra storia».

  • Di padre in figlio. Altri pastori, qui con costumi tipici
    I pastori all'alpeggio
  • A Tairraz. Nella zona del Monte Bianco
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Il Gaì non si parla, si recita. «Era una lingua parlata che non si fissava su carta, ma veniva tramandato di padre in figlio, di pastore in pastore». Non è un dialetto, né un sottodialetto o una lingua segreta. «È una lingua di classe, formata nel corso di molti secoli e composta da voci di lingue antiche, come il gaelico e il latino, da voci di lingue straniere apprese nei luoghi della pastorizia transumante, da vocaboli dialettali e da voci di altri gerghi».

La creatività linguistica dei pastori ha fatto sì che il Gaì non fosse mai un linguaggio statico, ma continuamente mutevole. Una sorta di esperanto, con alcune funzioni: «La più importante è quella di protezione; era una lingua di difesa e al tempo stesso di offesa. I pastori erano gente pericolosa, che sovente venivano alle mani e subivano denunce per furti e violenze: quando venivano interrogati dai Carabinieri fingevano di non capire e parlavano Gaì. Infine, era un distintivo di appartenenza e uno strumento di identificazione».

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