Cultura

Gli archivi russi svelano il destino dei dispersi dell’Armir

Spunta una lettera del capo della Cgil Di Vittorio al premier Molotov per avere notizie degli 80mila che non erano ancora tornati dalla Russia
La lunga marcia della ritirata di Russia, in mezzo alla neve
La lunga marcia della ritirata di Russia, in mezzo alla neve
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Dagli archivi affiorano manovre, piani politici e sottese valutazioni umanitarie per la sorte dei soldati italiani prigionieri in Unione Sovietica, catturati nell’apocalittica ritirata dell’inverno 1942-43. Subito dopo la guerra il capo della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, con accortezza politica e umana, in visita a Mosca, scrisse a Molotov, premier e ministro degli Esteri, chiedendogli notizie sui prigionieri e di poterli visitare.

Di Vittorio intercedeva per i dispersi dell’Armir, Armata italiana in Russia. Non sapeva che degli 80mila dispersi, 70mila erano già morti, in battaglia o per ferite, fame, stenti o assideramento. Il documento è custodito, in un dossier «rigorosamente segreto» a cui mi è stato permesso di accedere, al Garspi, archivio statale russo di storia socio-politica. Dato che in ogni dossier viene registrato chi lo consulta, posso affermare di essere il primo ad aver avuto accesso a questo materiale. Già nel 1992, con il crollo sovietico, fu scoperta a Mosca una lettera di Togliatti del 15 febbraio 1943, in risposta a Vincenzo Bianco, dirigente comunista che segnalava le dure condizioni dei prigionieri. Togliatti scriveva: «Se un buon numero di prigionieri morirà in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire. (...) Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, il più efficace degli antidoti».

Finita la guerra da parte sovietica perdurava il silenzio sui prigionieri. Secondo lo Stato Maggiore, su 230mila uomini, oltre 80mila risultavano «dispersi». Il carteggio. La lettera di Di Vittorio è datata 5 agosto 1945, e arriva a Molotov il 6 agosto, inoltratagli da Dimitrov, già segretario del Comintern. È dattiloscritta in italiano, tradotta in russo, firmata «G. Di Vittorio» in inchiostro verde, come usava Togliatti. È l’unico elemento in comune con la missiva di Togliatti a Bianco. Di Vittorio sottolinea l’opportunità politica di avere notizie sui nostri militari. Con tatto ma con fermezza, evidenzia che i prigionieri degli inglesi e degli americani sono già tornati a casa, e i pochi ancora trattenuti hanno corrispondenza con le famiglie.

Il suo è un documento politico, ma intriso di sensibilità. La richiesta non rimane senza risposta. Nel dossier c’è una nota per Molotov dal vice ministro degli Esteri, Solomon Lozovsky, redatta dopo un’indagine e due incontri con Di Vittorio: «Sul nostro territorio ci sono in totale poco più di 20mila prigionieri. Gli altri morirono nel corso delle dure marce e trasferimenti dal fronte all’interno dell’Urss». Lozovsky suggerisce di far incontrare la delegazione con i nostri militari in due campi predisposti dalla polizia politica e permettere di trasmettere brevi note per le famiglie. Mosca cominciò poi a rilasciare i prigionieri. Tra il 1945 e il 1946 tornarono 21mila uomini: la metà erano superstiti dell’Armir; il resto, quelli messi nei lager dai nazisti dopo l’8 settembre e liberati dai sovietici, che però li accomunavano ai prigionieri.

Restavano nel gulag centinaia di ufficiali e alcuni cappellani. Saranno liberati a scaglioni: gli ultimi nel 1954. Secondo Lozovsky, nell’agosto 1945, su 80mila dispersi dell’Armir, solo 10mila erano sopravvissuti. Pietosa consolazione per le famiglie: i 70mila mancanti finirono di patire molto presto. Per loro la morte fu benigna fine di grandi sofferenze.

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