Italia e Estero

«Il Pd ritorni all'idea originaria basata su confronto e ricerca»

Gregorio Gitti tornerà in università e alla professione d’avvocato: «Renzi abbia il coraggio di risostenere Gentiloni»
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Cinque anni di servizio e ora il ritorno alla professione di avvocato e di docente universitario. Gregorio Gitti ripercorre il suo mandato parlamentare guardando alla prossima scadenza elettorale con l’auspicio che l’esperienza di Gentiloni non si concluda il 4 marzo.

Onorevole Gitti perché ha deciso di non ricandidarsi?
Perché credo che il periodo trascorso in Parlamento sia stato sufficiente per restituire un’esperienza ed una competenza acquisita nel periodo precedente, nella logica di una politica di servizio e per passione che ho sempre avuto come riferimento. Non ho mai inteso la politica come professione e quindi torno volentieri a fare il professore universitario e l’avvocato. In particolare rientro volentieri in università, al confronto con i giovani e al lavoro di formatore perché credo che sia l’investimento politico più importante e rilevante di cui ha bisogno il nostro Paese. L’Italia ha straordinarie risorse umane, imprenditoriali, professionali; il punto è che sono fuori dal circuito istituzionale.

Lei si è candidato con Scelta Civica. Rifarebbe quella scelta?
Sì perché ne vedo intatte le ragioni e le motivazioni. Se Mario Monti avesse avuto tra i suoi vari talenti anche quello dell’organizzatore politico, questo spazio elettorale sarebbe stato fondamentale per garantire una stabilità politica e un orientamento strategico per il Paese. Quello spazio esisteva 5 anni fa ed esiste ancora, più dilatato, oggi. Il tema vero è che il Pd, per prima cosa 5 anni fa, cercò la trattativa con Grillo; mentre noi ci eravamo candidati con Monti per garantire una maggioranza di governo coerente con gli obiettivi di riforma e di risanamento. Nello specifico mi sono candidato perché ho sempre coltivato un interesse politico: nel 2006 con alcuni amici avevo promosso l’associazione per il Partito democratico pensando che quell’esperienza, allora, fosse quella di grande apertura e di confronto biunivoco fra la politica e la società. Ciò che poi non è avvenuto. Proprio per questo penso che l’esperienza di Monti, a distanza di tempo, sia stata utile a raccogliere rappresentanti competenti della società civile. Purtroppo Sc è implosa per l’incapacità della leadership di organizzare un ordito politico e quindi una rappresentanza di governo adeguata.

Nel corso della Legislatura poi è arrivato al Pd. Così ci può dire?
Sono arrivato al Pd perché il mio orientamento e la ragione della mia candidatura erano quelli di dare un sostegno ad una maggioranza che fosse di centrosinistra. Nel momento dell’implosione di Sc mi sono ritirato in una posizione più defilata, ma anche più vicino a quello che era il mio orientamento politico.

Lei si ispira ancora ad un Pd «prodiano»?
Sì, se vogliamo usare una formula semplificatrice.

Il Pd sta andando in quella direzione?
No, perché il Pd di allora aveva il coraggio e il gusto del confronto e della ricerca culturale. Questo Pd è chiuso in sé stesso e anziché produrre una ricerca originale copia di soppiatto e alle volte inconsapevolmente. Ma non perdo la speranza e credo che avrà le forze e le energie per poter ritornare ad una ricerca libera ed originale, colmando la distanza tra partito e compagine di governo.

Nel suo passaggio da Sc al Pd aveva delle aspettative sul governo Renzi?
Avevo un’aspettativa che si è inverata. La maggioranza guidata dal Pd e con questo mi riferisco ai tre governi - Letta, Renzi, Gentiloni - con approcci anche caratteriali diversi, ma politicamente omogenei, ha prodotto una legislatura di risultati importanti, sia sul piano delle riforme sia sul piano delle prospettive. I tre governi hanno lavorato incessantemente sul piano legislativo e sul piano dell’organizzazione ministeriale. Non bisogna dimenticare che l’ambito politico coincide con l’ambito statuale e non c’è solo il tema della legislazione ma anche quello dell’amministrazione burocratica. Il Pd anche su questo versante ha fatto sforzi notevoli di cui si vedranno i risultati in prospettiva. Penso quindi che un risultato inadeguato del Pd alle prossime elezioni sarà ingiusto.

Cosa può essere fatto per invertire la tendenza?
Nel momento in cui sarà superato questo momento delicato della configurazione delle liste elettorali, il Pd potrà avere più slancio nel momento in cui Renzi avrà la forza di candidare come premier Gentiloni. A quel punto il Pd sarà in grado di recuperare qualche punto e Renzi stesso potrebbe avere maggiore spazio politico. La figura di Gentiloni ha saputo interpretare al meglio l’attitudine italiana alla politica, che il fiorentino Renzi dovrebbe valorizzare, quanto meno con senso di opportunismo nell’interesse suo, del Pd e del Paese.

Quali sono stati gli errori di Renzi?
Uno dei limiti del suo metodo di lavoro è stato costruire un governo che in partenza aveva un profilo non adeguato ai problemi: alcuni ministri sono stati lanciati su questioni di cui non avevano padronanza. Dopo un periodo di rodaggio Renzi ha potuto sperimentare quali fossero gli snodi dell’esercizio del potere e della proiezione di uno Stato come quello italiano, il cui ruolo strategico, dal punto di vista diplomatico, economico, militare e della rete dei rapporti internazionali, richiede esperienze, che nell’ambito dei vecchi partiti si potevano maturare nell’arco di qualche decennio. E quindi gli va dato atto che, dopo questo rodaggio, ha saputo imprimere al Governo un ritmo eccezionale di lavoro. Dal punto di vista squisitamente politico, l’errore più grande Renzi l’ha commesso quando ha deciso di trasformare il referendum costituzionale da fatto tecnico a referendum sulla sua persona. È meglio rappresentarsi come modesti riformatori dietro l’ombra lunga dei Padri costituenti piuttosto che cercare di ergersi a confronto.

Di cosa può dirsi soddisfatto rispetto al lavoro fatto in questi cinque anni?
Non spetterebbe a me dirlo, ma credo che sia stato significativo il lavoro realizzato con la Carta dei diritti della persona in Internet, la prima a livello europeo, che ho scritto insieme a Stefano Rodotà. Oltre a questo, la cosa più interessante i cui frutti si vedranno nei prossimi mesi sono state le riforme in ambito finanziario e bancario che ho seguito da vicino. Sia la riforma delle banche popolari, sia la riforma delle banche di credito cooperativo segnano un punto di svolta sia nella gestione di questi istituti sia nella loro capacità di essere attrattivi di forti managerialità e quindi di contribuire a costruire quelle infrastrutture finanziarie di cui l’economia del Paese ha bisogno. A tal proposito trovo assolutamente sconclusionata la polemica sulle banche, questo governo ha tra i suoi meriti quello di aver compiuto una ristrutturazione importantissima come quella di Mps, con la decisione di Padoan di portare lo Stato nel capitale della banca, che condurrà a risultati economicamente e finanziariamente vantaggiosi. Si sarebbe potuto fare lo stesso con le banche venete, dove Viola stava facendo un miracolo e dove il governo ha pagato l’indecisione del Regolatore europeo, sui conti delle due banche, portando alla loro liquidazione coatta amministrativa.

Perché in questo Paese le campagne elettorali vengono segnate dai cosiddetti scandali bancari, usati come arma?
Problemi gestorii sono oggetto di indagine in qualunque ordinamento bancario del mondo. Ma in Italia siamo di fronte ad una mancanza di cultura istituzionale dei partiti che utilizzano qualunque mezzo per poter aggredire l’avversario. E qui veniamo ad un punto delicato: nel nostro Paese non esistono partiti che abbiano una vera struttura associativa che consenta loro di traguardare obiettivi a medio-lungo tempo. Abbiamo partiti che non sottostanno alle regole elementari di uno statuto democratico o di un bilancio certificato e in cui è sempre più opaca la zona in cui vengono assunte le decisioni in termini di esercizio del potere. Il M5S ha fatto la sua fortuna sui temi dei rimborsi elettorali, ma non si capisce in che modo viene gestito il bilancio o i rapporti fra la struttura aziendale privata, che funge platealmente da managing company, e i gruppi parlamentari. Abbiamo altri partiti che hanno strutture fondazionali gestite oligarchicamente da vertici ristretti. In realtà c’è solo un partito che di nome e di fatto pratica la via democratica alla ricerca del potere. Questo stato di cose segna il grado di maggior arretramento del nostro Paese: non abbiamo partiti che rispondano al canone costituzionale dell’articolo 49.

 

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