Una lacrima nel brodo

La gita a Courmayeur con la scuola ha avuto il potere di cambiare la considerazione del brodo
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Quest’estate il sedano mi ha regalato grandi soddisfazioni. È cresciuto tonico, verde intenso, profumato da inebriare l’anima. Io che sono una cicala canterina lo avrei mangiato tutto in fresche insalate. Mia mamma e mia nonna, che sono due previdenti formichine, lo hanno messo da parte per l’inverno. Grazie a loro ora possiamo gustare saporiti minestroni, ma anche semplici brodi vegetali che la sera ti rimettono in pace con il mondo. Devo ammettere che ho cambiato opinione sul brodo. In passato un triste fatto me lo aveva fatto odiare. Sul finire degli anni Ottanta siamo andati in gita con la scuola a Courmayeur.

Le settimane bianche erano allora privilegio elitario, quel viaggio fu quindi una specie di iniziazione in un mondo a noi sconosciuto: quello dei ricchi. Ma negli anni della Milano da bere si sognava sempre e comunque in grande. A me viene assegnata una camera doppia col mio storico compagno di banco. Apriamo i bagagli e lui estrae un thermos color dissenteria. Ma ti sei portato il tè da casa? Gli dico. Figurati, replica lui. Svita il tappo rosso scolorito e piombiamo nell’inimmaginabile: il contenuto è brodo. Mentre lo sorseggia sembra masticare. Lo guardo inorridito. Mi piace sentirlo sotto i denti. La camera viene così ammorbata del tipico odore di colonia al mare gestita dalle suore. Quel tanfo di cane bagnato diventa un repellente naturale per le nostre compagne. Prima di addormentarci, ci mettiamo alla finestra con i nostri pigiami color carta da zucchero. Che bella la neve, mi dice, vuoi un sorso di brodo? Ho pianto.  

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