Una comune umanità in mille sfumature

Quando si ha torto marcio invece è doveroso farlo, soprattutto se il mea culpa arriva con molti decenni di ritardo
Il re del Belgio ha chiesto scusa per il colonialismo in Congo
Il re del Belgio ha chiesto scusa per il colonialismo in Congo
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Riconoscere i propri errori è sintomo d’intelligenza e di buon gusto. Quando si ha torto marcio invece è doveroso farlo, soprattutto se il mea culpa arriva con molti decenni di ritardo.

Scuse stantie come quelle del re del Belgio indirizzate alla Repubblica Democratica del Congo, forse solleticate dall’acre odore di fumo che si propaga dai fuochi revisionisti che incendiano il Nuovo Mondo. Un gesto formale che sembra avere un po’ la coda di paglia ma resta l’ammissione manifesta della vessazione di un colonialismo rapace, le cui conseguenze sono ancora tangibili. Il silenzio è stato il comune denominatore tra i governi europei che si sono arricchiti in cambio di briciole, imponendo cultura e religione a uomini che hanno sempre considerato inferiori per disposizione naturale.

Anche la grandeur della Francia dovrebbe fare ammenda per aver costruito uno zoo umano, in totale disfonia con il motto della rivoluzione: Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. Nel 1907, a Parigi, fu allestita dentro il Giardino di agronomia tropicale una cinica mostra didattica per far conoscere le caratteristiche dei territori sottomessi al loro dominio. Nei padiglioni vennero ricreate le tipiche abitazioni circondate da palme, mentre le etnie indigene esposte nei loro abiti tradizionali furono date in pasto alla curiosità di un milione di visitatori. In quel periodo dove regnava la pruderie, le mamme africane seminude che allattavano i loro bambini furono le più «studiate».

Purtroppo altri Paesi esposero l’umanità come attrazione circense, poiché il vezzo di scoprire il lato esotico del «Candido» raccontato da Voltaire è difficile da estirpare. Anche il turismo odierno per certi versi conserva le tracce di quello snobismo tipico del secolo scorso. Come i protagonisti del film «Il tè nel deserto», ai quali Bernardo Bertolucci fa dire: «noi non siamo turisti, siamo viaggiatori», ancora oggi ingiustamente il «popolino» viene distinto nella convinzione che esso non sia in grado di cogliere la vera essenza del viaggio.

Adesso che abbiamo gli strumenti adatti per vedere il mondo, non solo con criterio estetico ma anche con giudizio etico, dovremmo saper guardare l’umanità in tutte le sue sfumature considerandola uguale. Un recente test ha dimostrato che uomini appartenenti a razze diverse conservano nei filamenti del Dna i medesimi ascendenti. A ben vedere, dentro le nostre tuniche di pelle, siamo un po’ tutti parenti. Risalendo l’albero genealogico potremmo incontrare l’australopiteco Lucy, la nonna che abbiamo in comune. Volerci bene non dovrebbe essere così difficile!

 

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