Il pane degli altri ha sette croste

«Quando sento dire che il pane degli altri ha sette croste nella mia mente prende sempre forma l’immagine di una pagnotta rinsecchita»
Il modo di dire recita: «il pane degli altri ha sette croste»
Il modo di dire recita: «il pane degli altri ha sette croste»
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Quando sento dire che «il pane degli altri ha sette croste» nella mia mente prende sempre forma l’immagine di una pagnotta rinsecchita. Quasi ogni giorno anche Tina, una cinquantenne colta, brillante e minimalista che da tempo lavora in un ufficio Postale, pensa a quanto sia duro guadagnare il pane quotidiano. Torna a casa la sera esaurita come una batteria, sentendo addosso una indefinibile stanchezza frammista di malinconia.

Il suo abbattimento si origina a volte nei modi grevi degli utenti o nello scontento che alcuni colleghi riversano su di lei nelle ore d’ufficio. La crosta più dura è data dall’insoddisfazione che sembra permeare l’ambiente di lavoro, attutita nei picchi altalenanti solo dalle variazioni del meteo. Tina è una donna sensibile e dal sorriso aperto, ma spesso ripensando a ciò che avrebbe voluto fare davvero della sua vita si rabbuia.

La sua è una storia comune a tanti, quando le scelte generano frustrazioni e somatizzate scatenano dei gran mali di testa. La nostra società competitiva obbliga tutti a misurarsi, condividendo spazi e tempo, facendoci inghiottire un bolo di illusioni e digerire aspettative inappagate che restano sospese come i progetti abbandonati. La gente guadagna il suo tozzo di pane compiendo anche i lavori più umili, la cui mollica spesso ha il sapore acido del sopruso e dell’assenza di ogni tutela.

Un pane azzimo, impastato con la farina proveniente dai granai del lavoro nero, affidato a un caporalato diffuso non soltanto nelle campagne del nostro meridione. Un pane mangiato con poco companatico, salato con il sudore della fronte anche dei bambini; una pagnottella secca sulla quale crescono le spine, così come rappresenta «il pane degli altri» l’artista Andrea Cereda, più eloquente di tanti aggettivi. Un Pane quotidiano con gli aculei come un riccio di mare, le cui spine feriscono prima le mani e poi il palato provocando indicibili sofferenze.

Di questi tempi si sta ispessendo anche la scorza della nostra Italia, dopo che la povertà da molti ignorata ha fatto la sua drammatica comparsa. Non sarà facile imparare a mangiare pane raffermo, poiché nessuno penserà di sfamarci con delle brioche. Dovremo convenire con il tanto vituperato Indro Montanelli quando scriveva: «la vita è come il pane: col trascorrere del tempo diventa più dura, ma quanto meno ne resta tanto più la si apprezza».

 

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