La vacanza importata e la dolce zia Elvira

Può succedere che ci siano termini in italiano (è il caso della parola «vacanze») che non hanno un corrispettivo storico nel dialetto bresciano
Vacanze (foto simbolica) -  © www.giornaledibrescia.it
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«La traduzione - sosteneva lo scrittore inglese Anthony Burgess - non è solo una questione di parole: il punto è rendere comprensibile un’intera cultura». E allora può succedere che ci siano termini in italiano (è il caso della parola «vacanze») che non hanno un corrispettivo storico nel dialetto bresciano. Oggi due parlanti nostrani direbbero «la setimàna che ’é endó en vacànsa» ma suona come l’uso di un termine importato, non storicamente indigeno.

Una conferma viene, ad esempio, anche dal fatto che in un dizionario bresciano come quello del Melchiori del 1817 - vera pietra miliare - il termine non compare nemmeno. Ma perché il dialetto dei nostri nonni non aveva questa parola? Semplicemente perché i nostri nonni non avevano le vacanze.

Il riposo dal lavoro si limitava a piccolissime pause, indicate con perifrasi del tipo «fa fèsta», «’ndà èn viòla» oppure «’ìga botép» che lasciano trasparire una sorridente condanna sociale per il dolce far nulla. Inimmaginabile poi, in campagna, il riposo estivo: «paesà che dórma d’istàt, el regòer l’è sparmezàt» (contadino che dorme d’estate, il raccolto è dimezzato).

Mi torna in mente quella volta in cui l’antica zìa Elvìra assistette al concitato dialogo delle nipoti sulle ferie estive («Quest’anno sono incerta tra Versiglia e Marche», «Io non so se ritorno in pensione, magari stavolta provo il campeggio», «Io non ho ancora prenotato e adesso ho paura di non trovare più posto»). Lei, che mai in vita sua era uscita di cascina, volle condividere tanta preoccupazione: «Certo, che chèle vacanse ché l’è un de fà mìa de rìder...». Culture a confronto.

 

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