Il gusto dei macarù beati e ignoranti

In un piatto di pasta secoli di significati (e di sorrisi)
Alberto Sordi mangia «macaroni» nel film «Un americano a Roma» - © www.giornaledibrescia.it
Alberto Sordi mangia «macaroni» nel film «Un americano a Roma» - © www.giornaledibrescia.it
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Dei buoni maccheroni ignoranti, ecco cosa può bastare a rendere una giornata un’ottima giornata. L’ignoranza (intesa in questo caso come la mancanza di paraocchi culturali, come la capacità bambina di andare dritti alle cose) è spesso legata alla beatitudine. E i maccheroni possono diventare il piatto in cui questi due ingredienti si incontrano. Macarù è l’appellativo - in bilico fra l’offensivo e lo scherzoso - col quale la parlata bresciana indica la persona grossolana, l’ignorantone. Una tradizione antica. Risale al Rinascimento il fiorire di quella poesia maccheronica che mescola grammatica latina e termini dialettali e popolari (il linguggio delle cucine dei conventi...). La finalità è satirica, ma spesso diventa il modo per denunciare storture sociali e umane.

Ne fu campione quel Teofilo Folengo cresciuto culturalmente nel monastero di Sant’Eufemia e citato da Rabelais, Giordano Bruno, Erasmo da Rotterdam. E arriva almeno fino al Canossi e alla sua «Passeggiata di Maccheronica Gambara».

Ma da dove arriva il termine maccherone? Secondo alcuni dal latino maccare che significa pestare, schiacciare, impastare. Un intellettuale atipico come Prezzolini però lo fa risalire al greco antico makàira che già nel vocabolario dell’alessandrino Esichio (V sec. aC) indicava un impasto di farina e brodo. Un cibo usato nelle cerimonie religiose alle cui spalle ci sarebbe la radice di makris, che significa beato. E allora con macarù la parlata bresciana, che rifugge dalle doppie, restituirebbe quel makàrioi oì ptokòi (beati i poveri) che risuona asciutto e immenso in Luca. Maccheroni, quindi: beati e ignoranti.

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