Galline, tacchinelle e botole semantiche

Quando uno stesso verbo assume significati molto diversi...
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Gratta gratta, sotto un significato se ne trova un altro. E - grattando ancora un po’ - a volte addirittura un terzo. Nel dialetto si inciampa spesso in termini che aprono botole semantiche diverse a seconda del contesto in cui sono usati.

Vale, ad esempio, per il verbo palpà, che traduce sia l’italiano palpare (cioè saggiare con i polpastrelli) sia in modo più gergale l’atto del rubare. Due orizzonti di senso molto diversi, che possono cambiare a seconda del termine cui il verbo è di volta in volta associato.

Ad esempio: definire un uomo un palpagalìne significa dire che ruba galline (che è un saltapolér); definirlo invece un palpapóle vuol dire che la sua attività precipua consiste nel palpeggiare tacchine metaforiche. Insomma: diversa la pennuta, diverso l’obiettivo, diverso il significato.

Tutto questo ci porta dritti dritti a un proverbio riportato da Francesco Braghini nella sua bella raccolta «Chèl póc che gh’è restàt» che recita così: «Cül de ostére e pèrsec nostrà i-è i piö facii de palpà». Un monumento sorridente alla polisemia.

Ma attenzione: palpà in alcuni casi può voler dire anche malmenare («N’hó ciapàt ’na palpàda»). Anche il verbo gratà è sia grattare sia rubare. E nell’ambiguità il pericolo è sempre in agguato. Così quando qualcuno vi dice «Se ta ’nduìnet chèl che g’hó ché ta ’n dó una gràta» vi conviene capire al volo su quale botola semantica siete: intende un succoso grappolo d’uva o una gratàda maligna? Auguri.

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