Sala Libretti

A un anno dalla morte di Sana, si cerca ancora la verità

In sala Libretti al GdB l’incontro con la regista e attivista per i diritti umani Samar Minallah
SANA CHIEDE VERITA'
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Sana ci interroga e chiede la verità a tutti noi. La sua è una vicenda emblema di centinaia di giovani donne annientate, violate o private della libertà che, spesso, scivolano nell’oblìo. È passato un anno dalla morte di Sana Cheema, la ragazza nata in Pakistan, ma cresciuta a Brescia, tornata per un breve periodo nel suo Paese natale in visita ai familiari. Proprio lì, nella regione del Punjab, è stata uccisa, quando in tasca aveva già un biglietto di ritorno e tanti sogni da realizzare. Il padre e il fratello, presunti colpevoli, sono stati assolti in primo grado per insufficienza di prove.

A «Sana e le altre: uccise e calpestate» è stato dedicato l’incontro di ieri sera nella sala Libretti del Giornale di Brescia, con ospite d’eccezione Samar Minallah - filmaker, antropologa e attivista per i diritti umani - in dialogo col direttore Nunzia Vallini e la giornalista Anna Della Moretta. Le tappe di un’inchiesta difficile, condotta con determinazione e frutto di un «lavoro di squadra» del nostro giornale, ripresa poi a livello internazionale e che ha generato una campagna virale sul web, sono state ricordate dal direttore: «Avevamo ricevuto le confidenze da alcune amiche di Sana: ci hanno rivelato che era stata uccisa, anche se la verità ufficiale era un’altra. Abbiamo ritenuto vera la notizia e l’abbiamo pubblicata, ma in alcuni momenti ci siamo sentiti davvero soli». Fondamentale il contatto di Della Moretta con le comunità straniere operanti a Brescia, che a lei si sono «aperte» con fiducia.

A monte sta un problema «apparentemente» solo culturale, quello dei «matrimoni di compensazione» (Sana si rifiutava di sposare l’uomo che la famiglia aveva scelto per lei), cui le giovani vengono indotte prima col ricatto emotivo, poi con la forza. «Dobbiamo concentrarci sulle cause profonde - ha affermato Samar Minallah -: come antropologa sostengo che questo tipo di uccisioni hanno a che fare con fattori di carattere economico e sociale. Nel passato, le giovani donne venivano date in spose per risolvere dispute tra i clan. Oggi esistono leggi specifiche contro questa pratica». Lo stesso video girato da Samar, che è stato proiettato assieme ad altri «corti» della regista, è stato portato come testimonianza alla Corte costituzionale del Pakistan contribuendo a smuovere le acque (e a salvare più di cento ragazze).

L’attivista pone l’accento soprattutto sulla prevenzione, come atto di corresponsabilità che passa attraverso il coinvolgimento dell’intera comunità, degli organi di polizia, delle organizzazioni religiose e degli educatori. Ed anche di un «giornalismo etico», che come in questo caso è stato nerbo del giornalismo d’inchiesta. Una luce forse s’intravede in fondo al tunnel, soprattutto per la volontà di cambiamento da parte delle nuove generazioni, ma si tratta di un «processo molto lungo», mentre - osserva Nunzia Vallini - l’emergenza è «adesso e per i prossimi dieci anni» e la preoccupazione per quei ragazzi e ragazze che «scontrandosi con sub-culture scatenano reazioni particolarmente violente».

Sajad Hussain, portavoce della comunità pakistana, ha rilevato la necessità di integrazione «da entrambe le parti». Il presidente del Consiglio comunale, Roberto Cammarata, ha rivolto una sollecitazione a Samar Minallah: di «tornare tra qualche mese e girare un film sulla comunità pakistana bresciana». Proposta accettata.

 

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