Italia e Estero

Il coronavirus in Italia settimane prima di Codogno: i casi

I ricercatori del Policlinico di Milano hanno esaminato circa 800 donatori di sangue sani
Coronavirus, analisi di laboratorio - Foto Epa © www.giornaledibrescia.it
Coronavirus, analisi di laboratorio - Foto Epa © www.giornaledibrescia.it
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Il Coronavirus era in Italia da settimane prima del caso 1 di Codogno, identificato lo scorso 21 febbraio. La conferma arriva da due nuovi studi. Il primo lavoro è del Policlinico di Milano, pubblicato su medRxiv, e dimostra che a inizio epidemia 1 donatore di sangue su 20 (4,6%) nella città aveva già sviluppato gli anticorpi, percentuale salita al 7,1% ai primi di aprile.

L'altro studio è dell'Università di Parma che, per la prima volta, ha isolato il nuovo coronavirus in un neonato di 7 settimane già il 26 febbraio, ma è probabile che il piccolo si sia infettato almeno dalla metà dello stesso mese dati i tempi di incubazione. I ricercatori milanesi hanno esaminato circa 800 donatori di sangue sani presentatisi al Policlinico tra il 24 febbraio e l'8 aprile. Si tratta della «prima vera conferma scientifica che nell'area metropolitana era presente un sommerso di persone contagiate, già prima che si verificassero i primi casi di malattia conclamata; è anche il primo studio sierologico su persone asintomatiche che ci dice chiaramente che siamo ben lontani dall'immunità di gregge», spiega Daniele Prati, uno dei coordinatori dello studio. La pratica del distanziamento sociale sembra però aver favorito soprattutto i più giovani, che hanno avuto il tempo di sviluppare un'immunità a lungo termine.

A Parma, invece, per la prima volta il SarsCov2 è stato isolato da un neonato e replicato in laboratorio. Una scoperta che, oltre a retrodatare l'inizio dell'epidemia nell'area, apre anche a importanti sviluppi futuri. L'isolamento è stato effettuato nei laboratori di Virologia dell'Università ed il dato è pubblicato su 'International Journal of infectious diseases'. Prima firmataria dello studio è la direttrice della Scuola di Specializzazione in Microbiologia e Virologia dell'ateneo, Adriana Calderaro. Il neonato era ricoverato per una lieve affezione respiratoria e lo sviluppo in coltura del virus è avvenuto dopo 10 giorni, probabilmente anche a causa della bassa carica virale. Proprio l'esame colturale ha consentito di dimostrare l'infettività del virus. Il risultato è, secondo le ricercatici, «rilevante». Innanzitutto, dimostra che la circolazione di questo nuovo virus nella popolazione pediatrica avveniva «già prima dell'epidemia riconosciuta in città» e questo supporta l'ipotesi che nei bambini la circolazione del virus «è spesso misconosciuta in virtù dei sintomi lievi». Infatti, spiega Calderaro all'Ansa, «il focolaio epidemico a Parma è stato dichiarato dal 5 marzo, ma in realtà il virus stava circolando in modo silente da ben prima che si registrasse un numero consistente di casi. Tanto che ad esserne infettato è stato un lattante i cui genitori sono risultati negativi. È dunque probabile che il bimbo si sia infettato da un soggetto asintomatico. Questo ci fa capire che c'è stata una subdola diffusione del virus ben prima di quanto stimato». Ma tale scoperta consentirà anche un ulteriore e fondamentale passo avanti nella ricerca: «quello isolato nel neonato è un virus vergine poichè il bambino non aveva ricevuto alcuna terapia o interazione farmacologica. È cioè un prodotto virale selvaggio che - sottolinea l'esperta - possiamo ora studiare in tutte le sue caratteristiche così come è presente in natura». Con uno sviluppo che potrà dimostrarsi cruciale: «Confronteremo ora il virus 'verginè isolato dal lattante con quelli isolati da soggetti adulti o bambini per rilevare quali sono le eventuali differenze e al fine di verificare - conclude la virologa - se il virus è mutato».

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