«Scrivo perché su Auschwitz bisogna evitare di stare zitti»

Enrico Mottinelli presenta il nuovo libro, che sarà presentato in redazione al GdB
Enrico Mottinelli col nuovo libro - Foto Giacomo Mottinelli
Enrico Mottinelli col nuovo libro - Foto Giacomo Mottinelli
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Il teologo André Neher definì Auschwitz «l’istante del Silenzio, di quel Silenzio che un tempo, alle origini del mondo, soffocò la Parola, per esserne non di meno la matrice». Un silenzio mai udito prima, che non cala soltanto sui testimoni, su chi sente di aver vissuto un’esperienza indicibile. «Intorno ad Auschwitz - dice Enrico Mottinelli - esiste una miriade di silenzi. Con questa chiave puoi percorrere tutta quella vicenda, dall’inizio ad oggi».

Mottinelli - bresciano, nato nel 1965, redattore capo di Garzanti Libri - ha compiuto questo percorso in un libro molto ben scritto e documentato, «Il silenzio di Auschwitz» (Edizioni San Paolo, 360 pagine, 22 euro), che sarà presentato venerdì 20 aprile alle 18 nella Sala Libretti del Giornale di Brescia. Nell’incontro, moderato dalla giornalista Paola Carmignani, Mottinelli dialogherà con lo storico Carlo Saletti. L’attore Daniele Squassina leggerà alcuni passi del volume (ingresso libero, richiesta la prenotazione: tel. 030.3790212, salalibretti@giornaledibrescia.it).

Mottinelli, uno dei silenzi che circondano Auschwitz è legato a una sorta di «sacralizzazione» dell’evento?
È un tema che attraversa tutta la letteratura su Auschwitz, la tentazione di sacralizzare quella realtà perché si fatica a capire di cosa si tratta e quindi diventa quasi una condizione metafisica. Secondo Elie Wiesel, di Auschwitz non si poteva dire nulla, perché mancavano le parole per descriverlo. Io mi schiero con chi crede che questa tentazione del silenzio sia da evitare, perché è come dire che Auschwitz non appartiene all’esperienza umana; coinvolte in quella vicenda, invece, furono persone come noi.

Individua due categorie di silenzi: quelli che hanno permesso che tutto accadesse, e quelli che hanno tenuto a lungo occultati i fatti…
Ci fu il silenzio dell’indifferenza, di chi si è voltato dall’altra parte e ha fatto finta di niente. E c’è il silenzio dei carnefici, anch’esso sconcertante, perché nessuno di loro ha mai parlato se non quando è stato portato in tribunale. L’esperienza del carnefice noi non la conosciamo, a differenza di quanto accade in genere con le organizzazioni criminali: in questo caso non ci sono pentiti.

E il silenzio delle vittime viene ereditato dai figli?
È un altro aspetto che fa rabbrividire. Ho scritto il libro perché mi aveva colpito la quantità dei sopravvissuti che non ha mai raccontato nulla. Quelli che ne hanno scritto e parlato sono una minoranza; i più hanno taciuto, perfino con i propri familiari. Nelle famiglie dei sopravvissuti, di quelle vicende non si parlava. Al punto che i figli hanno subìto gli stessi traumi dei genitori, come se anche loro avessero attraversato quell’esperienza.

Riflette sui limiti della «istituzionalizzazione della memoria». Come parlare di Auschwitz?
Il Giorno della Memoria, pur necessario, è una ricorrenza che ha dei limiti. Ricordo però che Furio Colombo - il promotore della legge - disse che doveva essere non tanto un giorno rivolto al ricordo di chi non c’è più, quanto piuttosto un monito per noi, per riflettere sul fatto che, se fossimo vissuti allora, forse saremmo stati dalla parte dei carnefici. Visto in quest’ottica assume un profilo diverso, più inquietante, assai meno evidenziato nelle celebrazioni.

Parla di un «corpo a corpo tra la memoria testimoniale e lo studio analitico e scientifico degli storici».
Perché storia e memoria faticano ad incontrarsi? La memoria ha un peso troppo grande. Quando parla chi ha attraversato quell’esperienza viene solo da ascoltare, perché è qualcosa che nessun altro ha mai vissuto. Per questo la ricerca storica, fondata sui documenti, ha faticato a trovare uno spazio. Il dibattito oggi in corso riguarda proprio la necessità di ridare alla storia uno spazio significativo. C’è poi una terza sponda, più filosofica: riflettere sul senso di quegli eventi, su cosa significano per noi. È quello che cerco di fare, chiedendomi in che misura Auschwitz mi riguarda. Perché anch’io sono figlio di quella storia.

Ecco la registrazione dell'incontro:

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