Quando l'assenza veste una coda rossa

L’arte di cucinare - e vivere - con quel che c’è
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È curioso come talvolta dialetti lontani tra loro possano essere legati dalla stessa ironia intelligente e popolana. Me lo ha ricordato sere fa il cuoco napoletano Antonino Canavacciuolo che in tivù parlava di un sugo povero, definendolo alle «vongole fujute». Vongole fuggite, presenti come idea ma non fisicamente. Insomma: un piatto fatto con quel poco che c’è, sognando altro.

Un po’ come quando mia suocera mi cucina «i usilì scapàcc», gli uccellini scappati. Perché in padella non ci finiscono i becchi fini (peraltro sarebbe illegale), ma dei «similuccellini»: graziosissimi involtini di carne insaporiti con pancetta e salvia. Evocare l’altrove con un sorriso era una delle arti di mia nonna. Le si illuminavano gli occhi quando mi prometteva che - se avessi fatto il bravo - il giorno dopo mi avrebbe regalato «i nigutì d’ór».

Nel nostro dialetto «negóta» significa «nulla» proprio come «argóta» significa «qualcosa». I «nigutì d’ór», quindi, altro non sono che dei «nonnullini dorati». Io mi fidavo di mia nonna, ma percepivo la fregatura. Allora lei per rassicurarmi - e senza smettere di sorridere - precisava: «I nigutì d’ór, ma chèi có la cùa róssa». Così io mi addormentavo cercando di immaginarmi come potessero essere dei «nonnullini d’oro con la coda rossa». Ridere di un’assenza. Lo fa la «risidùra» quando, «minestrata» ormai tra i commensali tutta la zuppa, raschia il fondo del pentolone e chiede: «Ghe n’è amó che na öl pö?» («Ce n’è altri che non vuole più nulla?»). Come diceva il proverbio: «Mèi argót che negót».

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