Il dado di Cesare e il duplice ciàncol

Il senso arcaico di un gioco che è anche un modo di dire
Giocatori impegnati in una sessione di lippa
Giocatori impegnati in una sessione di lippa
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Volano veloci come lippe. Rimbalzando dai decenni andati, i ricordi si fiondano in questi giorni sulla nostra pagina delle lettere: a lanciarli Luciano da Cellatica e Valeriano da Lumezzane. Al centro dei loro racconti c’è il ciàncol, con le sue regole e le sue abilità, con le sfide, i pomeriggi passati a divertirsi col niente sulle strade deserte del paese.

In realtà nel dialetto bresciano il temine ciàncol viene usato con due significati distinti: da un lato quando si parla di zöc del ciàncol ci si riferisce all’italiana lippa, al bastoncino a due punte che va fatto alzare in aria e poi battuto al volo con un bastone detto canèla, dall’altro quando di un oggetto o di una persona si dice che l’è un ciàncol significa che è proprio di nessun valore. Due significati distinti, eppure parenti tra di loro. O almeno a me così pare.

Nel termine ciàncol infatti io ci sento la parola latina iàculum, a sua volta legata al verbo iactare (quello del cesariano alea iàcta est, il dado è tratto) che significa gettare con forza, lanciare. Lo iàculum è quindi l’oggetto lanciato. È - insomma - il ciàncol nella sua duplice natura: sia il giavellotto, il proiettile, gettato per colpire il nemico o per mostrare abilità sportiva; sia l’oggetto che butto via con spregio proprio perché ai miei occhi vale nulla.

Queste due distinte aree di senso si reincontrano anche in un’espressione presa dalla rituale recita che i bambini facevano delle regole della lippa: ciàncol bù töt, che significa gioco senza limitazioni. Ma metaforicamente significa anche esser talmente disperati da raccattare, senza grandi aspettative, quel che altri butta via.

 

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